Se il racconto di fantascienza, come sosteneva Philip K. Dick, è un mondo trasformato in qualcosa che non è, o non è ancora diventato, Surrogates di Jonathan Mostow - maldestramente tradotto in italiano con Il mondo dei replicanti, a suggerire improprie assonanze con l'universo del grande scrittore americano - è quantomeno precoce rispetto all'ipotesi di verificabilità della Sci-Fi: quel mondo, con i dovuti distinguo, è già in atto. I surrogati messi in scena dal film - tratto da una cyber-serie a fumetti - sono più simili in effetti ai milioni di avatar che circolano nella reta come maschere dell'identità, proiezioni mentali di ciò che siamo e insieme di quel che vorremmo essere, piuttosto che agli androidi immaginati da Dick e re-immaginati da Ridley Scott.
Certo, questi sono avatar "incarnati", fatti di pelle, congegni elettronici e arti robotizzati la cui funzione - non dissimile da quella richiesta ai replicanti di Blade Runner - è sostituire l'uomo in tutte quelle attività che lo molestano e lo mettono in pericolo maggiormente, come fare la fila alla posta o combattere in guerra. Ma se il modello di Dick è quantomeno normodotato rispetto all'essere umano - capace in definitiva di ricostruire per sè la topica del pensiero metafisico: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? - quello di Surrogates è a intelletto zero, dipendente in tutto e per tutto dal suo referente di carne e alla sua mente connesso con un sofisticatissimo "link" neurale. Anche la terminologia dunque rimanda alla rete - vedremo che a innescare l'azione del film sarà l'utilizzo di un "virus" capace di eliminare il surrogato e bruciare il cervello al suo utilizzatore - a segnalare un'interessante ibridazione di immaginari, quello software della sci-fi virtuale e quello hardware, fatto di macchine e ferraglie, ovvero dei robot.
Questi surrogati sono insieme il compimento degli avatar virtuali - perché ci sostituiscono rendendo confortevole il nostro impatto sul mondo (sono più belli di noi, senza forfora né adiposi, non si ammalano, possono essere danneggiati, ma non morire mai) - e la premessa dei replicanti di Blade Runner. Senza che a questo bolo immaginativo corrisponda una moltiplicazione dei problemi: il film di Mostow non possiede l'ambizione filosofica del capolavoro di Scott, non viene neanche lontanamente tentato dal tema dell'identità e della morte. La distinzione tra uomo e surrogato - almeno a livello ontologico - non viene mai messa in discussione. L'approccio è meno metafisico e più situazionista, perfettamente inserito nella tribuna socio-politica odierna.
In fondo le pulsioni che muovono trame e sottotrame del film sono declinazioni al futuro dei tarli correnti: il primato dell'apparire sull'essere (l'ontico sull'ontologico), l'esito disumanizzante del capitalismo evoluto e la fuga dalla paura. Se il primo tema è affrontato in modo superficiale, mettendo all'indice soprattutto l'ossessione estetica - ma non si capisce allora perché Bruce Willis debba scegliersi un surrogato identico a lui però col parrucchino - e la critica politica è quanto meno ambigua (nel film chi vuole distruggere le conquiste del capitalismo è colpevole quanto chi le ha prodotte), un'attenzione maggiore sembra aver ricevuto il problema della sicurezza, il totem dell'inattaccabilità.
La morale qui è cristallina, vivere è un rischio che vale la pena correre. Ma anche spicciola a ben vedere, perché taglia di netto ogni altra questione - politica e culturale - nel nome di un ottimismo della volontà fragile nella sostanza e irrisolto nella forma. Come dire le idee ci sono, ma l'intelligenza per svilupparle no. La regia di Mostow è illustrativa oltre ogni immaginazione e paga pegno a una sceneggiatura che si accomoda lesta sotto la pensilina dell'action, senza molte altre pretese. La sensazione è di un ingolfamento drammaturgico (due-tre-quattro situazioni cardine che si avvitano su se stesse), di personaggi finti come i loro manichini servo-motori, e di un attutimento generale, come se l'urlo potenziale dell'idea rimanesse strozzato sotto cumuli di compromessi e sciocchezze.
L'alba dei replicanti può attendere. Per la sci-fi invece è ancora notte fonda.