È risaputo: le probabilità di avere come vicino di casa un uomo affabile, ben educato e senza scheletri nell’armadio, non sono mai così numerose come si spera. Tanto più se questo dirimpettaio potrebbe essere Hitler! Questa è la paradossale premessa di Il mio vicino Adolf di Leon Prudovsky, coproduzione polacco israeliana, presentata in piazza Grande all’ultimo Locarno Film Festival.

Nel 1934 l’ebraica famiglia Polsky vive in armonia, trascorrendo il tempo tra partite a scacchi, badare a decine di rose nere, concimate con gusci di uova finemente sminuzzati, e immortalando lo spensierato momento con una fotografia. Il flash dello scatto fissa la natura rievocativa dell'istante appena inquadrato e sposta la narrazione al 1960, in Sudamerica.

In un’isolata e trascurata casetta situata in un imprecisato villaggio, vive nella solitudine più luttuosa Marek (David Hayman), l’unico sopravvissuto dei Polsky all’Olocausto. La ben costruita emarginazione viene però infranta dall’arrivo di un enigmatico, per quanto “familiare”, vicino, il signor Herzog (Udo Kier). Il carattere scontroso, le fattezze camuffate e l’eccessivo alone di mistero che lo avvolge, inducono Marek a sospettare che egli possa essere il Führer non suicidatosi nel bunker anni prima. Non creduto dagli organi del Mossad, inizierà ad indagare in autonomia per trovare la prova regina che ne smascheri l’identità. Ma questa investigazione comporterà interagire con il presunto condottiere tedesco.

La convulsa ricerca di prove sull’effettiva somiglianza, costellata da un arguto “ce l’ho/mi manca” delle abitudini, caratteristiche fisiche e pittoriche confrontate con quelle emerse dalle biografie, è sì lo stratagemma del racconto, ma anche occasione per innescare un’elaborazione del trauma mai completamente attuata da Marek. Nell’uomo infatti è prevalso il bisogno di nascondersi per proteggere se stesso, la propria memoria, scegliendo di non processarla perché, come scritto da Hanna Arendt, “pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità”, strategia intrapresa per tutelarsi e per seguitare a convivere con gli amabili ricordi preferendo dissuadersi e, metaforicamente, non vivere. Condizione ravvisabile nel suo continuare ad aggrapparsi a ciò che anche solo per un attimo gli possa donare quel briciolo di serenità, come accudire un rigoglioso cespuglio di halfeti, i fiori amati dalla moglie.

Nonostante quindi la tematica sia impegnativa ed intensa, è intelligentemente lasciata sottotraccia come motivo conduttore e richiamata tramite elementi non lacrimevoli anzi, per quanto possibile, beffardi e spesso divertenti, tra i quali il far intravedere il numero identificativo del braccio mediante una spiritosa caduta nella vasca. Una commistione di toni incarnata in modo convincente dai due comprimari che riescono a dotare il proprio personaggio di personalità, facendo ritrovare ad uno lo scopo nello smascheramento e nell'altro calibrando una certa ambiguità, riuscendo così a dare anima ad un sodalizio interpretativo che fa del ritrovarsi intimamente, ragione ultima della storia.