È una sorte comune a molti capolavori letterari, si sa, quella di non avere un adattamento cinematografico all’altezza. Del moloch di Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, esistono varie versioni (la più famosa nonché irrisolta è la coproduzione italo-iugoslava diretta da Aleksandar Petrović e interpretata da Ugo Tognazzi e Mimsy Farmer), ma questa di Michael Lockshin – nato negli Stati Uniti e cresciuto in Russia al seguito del padre scienziato convinto di essere spiato dall’FBI – è sicuramente la più magniloquente e dispendiosa. Una sfida al cielo, perfino titanica considerando la dimensione ibrida del regista (certo non il massimo per un paese così nazionalista), che arriva dopo il fortunato esordio tratto da un altro classico, Pattini d’argento, e che si misura direttamente con la tradizione culturale russa, con i suoi demoni (letteralmente) e con le sue tensioni morali.

Il maestro e Margherita
Il maestro e Margherita

Il maestro e Margherita

Girato nel 2021 tra Russia e Croazia con fondi soprattutto britannici, post-prodotto a Los Angeles, Il maestro e Margherita è diventato suo malgrado un adattamento talmente sintonizzato sulla contemporaneità – con il regista espostosi contro l’invasione militare dell’Ucraina – da rimandare ripetutamente l’uscita fino al 2024. Nell’incontro travolgente e proibito tra un giovane scrittore, autore di una pièce censurata poiché Cristo vi è rappresentato con troppa umanità, e una donna bellissima e sposata, sullo sfondo della Mosca staliniana degli anni Trenta, c’è la trasfigurazione del rapporto tra arte e potere, libertà e repressione, realtà e creatività, innocenza e colpa, bene e male.

Un’evidente rilettura della Russia contemporanea, che dimostra la capacità del cinema di percepire l’aria del tempo: dalle purghe staliniane al dispotismo putiniano, cambiano i personaggi e le epoche ma non il senso delle cose. È qualcosa che risuona in questo romanzo sospeso tra satira e misticismo, non privo di una dimensione grottesca e pervaso di filosofia cristiana, tant’è che il film di Lockshin non solo ha incassato 28 milioni di dollari ma ha anche attirato l’attenzione governativa, diventando bersaglio di una campagna diffamatoria orchestrata da molti esponenti vicino all’attuale inquilino del Cremlino. Il risultato è pura cancel culture: il nome del regista è stato cancellato dai titoli di testa e, alla cerimonia dei Nika Awards, tra massimi premi russi, ai vincitori legati al film è stato impedito di ringraziare Lockshin (e non sono mancate le minacce di morte).

Il maestro e Margherita
Il maestro e Margherita

Il maestro e Margherita

Ma, più che l’opera di un dissidente (non lo è), Il maestro e Margherita è un kolossal capace di dialogare con il pubblico locale attraverso un sistema di riferimenti e allusioni che affonda le radici nel sistema culturale e valoriale russo. Lo fa servendosi di una confezione ridondante, traducendo la Mosca del romanzo in direzione esasperata nel gigantismo e antirealista, come un teatro dove si mettono in scena le esistenze ridotte a pezzi del sistema.

Pur ricco di indiscutibili valori formali e di interpretazioni da manuale (in primis il luciferino August Diehl, con il gatto Behemoth doppiato da Yura Borisov, tra i più grandi attori russi ma anche ambiguo nel posizionamento politico), nel film riecheggiano qua e là quelle goffaggini delle coproduzioni europee di fine secolo e una trappola illustrativa che finisce per confermare la preoccupazione di chi riteneva l’adattamento di un romanzo del genere quantomeno spericolato.