Poesia dello sguardo, potere della musica, magia del cinema: Kenneth Branagh, sempre sensibile ai mondi dell'arte e del teatro, sulla scia di altri illustri colleghi (Losey con il Don Giovanni, Zeffirelli con La Traviata e Benoit Jacquot con Tosca), si appropria, sollecitato dalla Fondazione Peter Moores, del famosissimo Singspiel mozartiano, lo spoglia degli elementi misterici e massonici - che, non c'è dubbio, lo hanno talvolta appesantito nel corso della sua storia interpretativa -, amplifica quelli magici e favolistici, adatta allo schermo il testo del libretto chiedendo ad un letterato-regista illuminato come Stephen Fry di tagliare drasticamente i recitativi in funzione di scorribilità e tradurre il libretto in inglese, con buona pace dei melomani puristi. Trasporta poi il racconto, in un felice e coerente disegno di cinema, dal misterioso Egitto originario alle trincee sporche e dolorose della Prima Guerra Mondiale, tra soldati e popoli che soffrono per quella "inutile strage". Siamo nel 1918, nel cuore della cupa notte che copre e opprime la terra. Tra scoppi e spari, suona lontano un flauto, risponde uno zufolo. Tre dame prima in vesti di suore crocerossine e poi di soldatesse volontarie cercano di convincere il fascinoso Tamino a liberare Pamina dalle mani di Sarastro e aderire così ai propositi arcani e malefici della Regina delle Notte, che affronta le agilità sconvolgenti della sua prima aria, piazzandosi su un carro armato e quelle della seconda piroettando quasi impazzita in un cielo senza stelle. Poi c'è Papageno, che nel suo duetto con la ringiovanita Papagena pensa ai loro futuri Papageni e s'immagina già una bella famiglia dentro un accogliente fienile. Insomma, un'operazione di cinema musicale che segue una dinamica eminentemente teatrale, fedelmente ancorata anche allo spirito del testo di Schikaneder, ossia sganciata da una logica drammatica coesa, forzatamente unitaria, perché il Flauto è opera liberissima, che non richiama alcuna tradizione operistica precedente.

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