Qual è – anzi, chi è – il Roberto Baggio raccontato in Il divin codino? È prima di tutto – soprattutto – un Roberto Baggio secondo Roberto Baggio.

Niente di male, anche il Francesco Totti visto di recente (il doc di Alex Infascelli e la serie Speravo de morì prima) è benedetto da Francesco Totti stesso. Difficile che in situazioni simili possa andare diversamente, d’altronde: parliamo di viventi coinvolti in prima persona dietro le quinte, consapevoli della capitalizzazione iconica veicolata da questi progetti biografici che tutto sommato sono pensati per consolidare le idee degli spettatori/tifosi. Tuttavia, non si capisce bene a chi voglia rivolgersi il film, nuovo esito del sodalizio tra Netflix e Mediaset prodotto dalla Fabula Pictures di Marco e Nicola De Angelis.

L’impressione è che il problema non risieda tanto nello sguardo di Letizia Lamartire, qui all’opera secondo dopo l’esordio di Saremo giovani e bellissimi e alcuni episodi della serie Baby. Della storia di Baggio la regista riesce cogliere il desiderio di un figlio desideroso di ottenere un pieno riconoscimento da parte del padre e lo smarrimento di un ragazzo che cerca le risposte attraverso un intenso dialogo spirituale.

Il problema, semmai, sembra essere nella scrittura di Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo: il racconto di formazione procede per ellissi e sottrazioni, concentrandosi più sull’uomo in divenire che su un calciatore tra i più grandi di sempre (L'uomo dietro al Campione è il titolo della canzone scritta per l'occasione da Diodato), tant’è che le prodezze in campo restano perlopiù fuori campo.

Se il rigore sbagliato della finale dei Mondiali del 1994 si colloca quale spartiacque di una vita (fallimento ma anche capitela affettivo: “La gente ti vuole bene per quel rigore sbagliato”, gli dice la moglie), allora non si capisce perché di questo percorso viene attenuata – leggi: accantonata – la complessità di un personaggio di frontiera, fuoriclasse immortale ma al contempo ultimo rappresentante di una certa idea di gioco, fantasista carismatico e bandiera nazionale come pochi altri (sette squadre in ventidue anni).

Divin codino, dopotutto, è il soprannome del calciatore. Ma qui a mancare è il calcio, perfino negli scarni materiali di repertorio, come se da una parte si desse per scontato quanto la carriera di Baggio sia conosciuta dal pubblico e dall’altro si volesse sottolineare quanto l’uomo abbia capito che il calcio è solo una parte della vita. E i calciatori, sì: chi resta nella memoria oltre al protagonista (interpretato da Andrea Arcangeli)? Con chi scendeva in campo il Divin codino?

Il divin codino (Cr. Stefano C. Montesi)
Il divin codino (Cr. Stefano C. Montesi)
Il divin codino (Cr. Stefano C. Montesi)
Il divin codino (Cr. Stefano C. Montesi)

Perciò in piena luce ci sono il lessico famigliare, l’avvicinamento al buddhismo, i rapporti con gli allenatori. Ma finisce per essere un po’ troppo programmatica la differenza tra questi tre surrogati paterni e si capisce bene dal casting: Antonio Zavatteri asciuga il suo Arrigo Sacchi lasciando emergere il lucido tatticismo; Beppe Rosso individua negli occhi veloci e liquidi di Giovanni Trapattoni la strada per sottolineare la visione da villain che ne ha Baggio; e Martufello annulla Carlo Mazzone in un’emanazione bonaria che depotenzia l’irruente vivacità dell’originale.

Il divin codino non ha il senso dell’epica: una scelta etica e estetica, d’accordo, eppure, per usare un’immagine sportiva, il film ha le spalle strette e il fiato corto, come se si sentisse costretto nell’arco di un’ora e mezza, come se fosse il lungo teaser di una serie. Vogliamo bene a Baggio e gliene vorremo sempre, però non è che avessimo bisogno di una pur dignitosa agiografia.