È un film per signore, Il concorso, un ristoro pomeridiano tipicamente invernale, anzi natalizio. Un prodotto a suo modo impeccabile, confezionato con tutti i crismi della scuola inglese, naturalmente distribuito da BIM (25, 26 e 27 dicembre disponibile su Miocinema e #iorestoinsala) che con film del genere risponde benissimo alle aspettative di un pubblico preciso – e soprattutto femminile – che negli anni ha foraggiato con calorose commedie un po’ drammatiche.

Certo, le intenzioni di Philippa Lowthorpe (che di recente ha diretto due ottimi episodi della serie capolavoro The Crown – per gli adepti, tra le comprimarie c’è Emma Corrin, la splendida Diana della quarta stagione) sarebbero meno polverose, espresse da un titolo originale, Misbehaviour, che non a caso sta per “comportamento scorretto” (altro che l’anodina ma funzionale scelta italiana). Anche perché ne Il concorso batte un cuore femminista: rievocando un episodio accaduto nella Londra del 1970 propone un rispecchiamento con la realtà contemporanea.

Sostenuta dalla sceneggiatura di Gaby Chiappe e Rebecca Frayn (forse la cosa più curiosa è che con una storia così si sia scelta la forma classica del film anziché quella più à la page della serialità), Lowthorpe ha l’occasione di far incontrare la tradizione del period dramedy inglese elegantemente incartato con un certo afflato politico, peraltro neanche banale.

In una società dominata dal patriarcato che si sollazza con Miss Mondo, programma più visto al mondo, un gruppo di attiviste si oppone alla mercificazione del corpo femminile: nel bel mezzo di una cerimonia che maschera la sfilata di carne con l’edulcorata ipocrisia britannica, le ragazze fecero irruzione sul palco interrompendo la trasmissione in diretta della competizione. Un atto di guerriglia simbolico ma anche tangibile, che portò a una vittoria inaspettata: la lotta per la parità di genere è sempre una battaglia per una rappresentazione più inclusiva.

A farne le spese è Bob Hope, leggenda dello showbiz americano, presentatore del concorso ma anche emblema di una cultura maschile da picconare. Non a caso guadagna spazi e ottiene riscatti (almeno sullo schermo) l’ampiamente cornificata moglie Dolores, incarnata dalla sempre inappuntabile Lesley Manville. Pur consapevole di raccontare qualcosa che ha più di una referenza con l’attualità, Lowthorpe ha l’intelligenza di non adagiarsi sull’operazione a tesi, appoggiandosi proprio su quei valori di produzione che rendono queste produzioni così familiari con il pubblico. Ça va sans dire è un film d’attrici (e le vere protagoniste oggi âgée appaiono nel finale), dall’ormai rivelata Jesse Buckley a Gugu Mbatha-Raw come (spoiler) prima miss nera. Certo, la vera storia fu un po’ meno lineare di come la si racconta, ma è secondario.