A considerarne gli elementi fondamentali, c’è poco di nuovo in Il canto del cigno: in un futuro distopico in cui la sensibilità umana passa attraverso l’intelligenza digitale, un padre di famiglia, a cui è stata diagnosticata una malattia terminale (il sempre carismatico Mahershala Ali, anche produttore, leader di un cast largamente inclusivo che vede anche la cinoamericana Awkwafina e il nativo Adam Beach), deve decidere se accettare la soluzione propostagli dal medico curante (Glenn Close, solita fuoriclasse) per proteggere i congiunti (il figlio è Dax Rey, la moglie in dolce attesa è Naomie Harris).

Tuttavia, all’esordio nel lungometraggio dopo l’Oscar vinto nel 2016 con il corto Stutterer, Benjamin Cleary fa tesoro della lezione del passato e rivisita la tradizione americana del film metafisico, quel filone della Hollywood classica soprattutto post bellica in cui un personaggio che se la passa male viene a contatto con il mistero celeste. Il tono è certamente più severo e compassato, ma la generale atmosfera pandemica incide sulla necessità di una speranza alla quale aggrapparsi per immaginare il futuro.

Cleary cancella le venature brillanti del filone (L’inafferrabile signor Jordan, La moglie del vescovo) e prende di petto il dolore, lo misura con l’evidente necessità del ricordo e arriva al medesimo risultato di modelli come Joe il pilota: non c’è l’idea di esorcizzare la morte ma la volontà di parlare della vita attraverso la sua ombra. In questo senso un’altra suggestione sembra arrivare dal Philip Roth di Patrimonio, perché se il protagonista esplicito è certamente il padre quello nascosto in piena vista è il figlioletto: “Almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre ma come il padre”.

Perciò Il canto del cigno è un film che si pone in maniera chiara come un classico istantaneo, un commovente quanto scaltro feel good movie che non a caso Apple Tv+ fa uscire in occasione del Natale.

D’altronde è davvero la storia di un uomo consapevole di dover diventare un’assenza e dunque impegnato a testimoniare, tutelare e conservare la sua presenza nel paesaggio emotivo dei suoi cari, con un sistema – niente spoiler, ma diciamo che parliamo di una dimensione replicante – affascinante negli intenti e impressionante negli effetti. Risuona nel corso di questo film che fa professione di misura ma cerca di elevarsi sopra l’ordinario perché segnato dal peso di un dilemma, l’eco della pandemia in fieri intesa come rottura dell’equilibrio e trauma collettivo.

Il sentimento di un quotidiano ribaltato e messo alla prova si riverbera nell’ipotesi di un futuro dominato da linee razionaliste e colori neutri, eleganze asettiche ed assistenti virtuali, lenti per gli occhi e schermi impalpabili. Cleary costeggia il trascendente ma non ne interroga il portato filosofico degli eventi, toccando invece le conseguenze delle scelte. Il suo è un melodramma sommesso e dolente, dove il senso del tempo che scorre e ci trasforma si configura nei feticci del mondo analogico: le matite che disegnano universi, un paio di occhiali per filtrare il mondo, la carta di cui sono fatti gli origami.