Un film per riscoprire splendori e miserie di Josef Myslivecek (Vojtěch Dyk), organista e violoncellista principe di fine Settecento, mentore di Mozart, che abbandonò i mulini di famiglia a Praga per sbalordire Venezia e l’Italia con le sue composizioni.

Arie dell’epoca (registrate in presa diretta), amori, viaggi, azzardi, miserie e rovesci tragici si rincorrono ne Il boemo del ceco Petr Vaclav, coproduzione Italia, Repubblica Ceca e Slovacchia, che dopo la prima a San Sebastian 2022 ha aperto l’ultimo Trieste Film Festival e ora gira l’Italia in un pugno di sale selezionate.

Applausi a Václav che prima di battere il ciak, ha ficcato il naso in tutte le biblioteche e gli archivi d’Europa a caccia delle poche testimonianze (spesso deformate o leggendarie) su un musicista tanto celebre allora quanto misconosciuto oggi.

Ma sull’impalcatura da documentario sboccia un solido romanzo sentimentale dove la trama picaresca dialoga con una messinscena classica: il “Boemo divino” com’è appellato dal pubblico adorante, tra un tormento compositivo e un trionfo, vaga per le corti d’Italia a caccia di soldi patroni e donne; un Casanova felliniano, dunque, che lega la sua musica a più amori contrastati: giunto ragazzo a Venezia, allievo di Giovan Battista Pescetti, concupisce un’ aristocratica di spirito libertino (Elena Radonicich), gettando nella disperazione (anche letteralmente) una candida nobile, di cui rifiuta la proposta di matrimonio. La gratificazione lagunare per le opere serie, poi, diventa il trampolino per Napoli: il teatro San Carlo e il re ne consacrano la gloria, sublimata dal sodalizio con il soprano più famoso del tempo, Caterina Gabrielli (una nevrastenica ed eccentrica Barbara Ronchi) tra lo spartito e il letto. Da lì, altre peregrinazioni, altri successi e altri amori: il Boemo si strugge pure per una donna succube di un marito violento e dispotico (interpretata da Lana Vlady). Ma a frenarlo sarà lo stigma paralizzante della malattia, che lo sfigura senza rimedio. 

Dramma polifonico, ora lirico (notevoli gli squarci da cinema muto), ora decadente, cadenzato dalla composta furia dei dialoghi, in un girotondo di camere a mano, luce naturale e ambienti dal vero, si scava con delicatezza e coraggio un sentiero autoriale alternativo, ma non dimentico dei pilastri del bio-pic musicale (sprazzi dell’erotismo di Casanova, e di Amadeus che spunta in filigrana nell’incontro tra il Boemo e Mozart bambino).

La sceneggiatura, d’altro canto, anche se non brilla per guizzi visivi e memorabilità di scene, si stampella saggiamente alle fonti evitando, così, di deragliare. In più la fotografia (Diego Romero) estetizzante ai confini col formalismo (via Barry Lindon, di cui anche mutua la parabola dall’altare alla polvere) ricompone spirito aristocratico, ethos e valori del secolo senza forzature decorative.

Václav figlio di compositore, si mostra all’altezza del suo film, forse, più ambizioso: sa cucire con meticolosità l’ampiezza dell’affresco storico con la cura stilistica di un regia attenta al dettaglio e il respiro nobiliare della trama con lo scavo dell’intimità del protagonista. 

Ne esce un film che ondeggia tra amori e assenze, tra aspirazioni e contrasti, tra violenza ed estasi, tra sesso ed arte per ridare cittadinanza al genio crepuscolare di Myslivecek, errabondo e visionario, innalzato e tradito dalla sua stessa brama d’amore e gloria, simbolo di un’epoca al tramonto, pronta ad essere capovolta, per sempre, da Mozart.