Sguardo acerbo ma ricco di possibilità quello di Alessandro Comodin, che alla seconda prova dietro la mdp conferma quanto di buono aveva fatto vedere ne L’estate di Giacomo. E fa anzi un passo in più, virando con decisione su un registro più inedito e ardito, che contamina il naturalismo con il simbolismo fiabesco. I tempi felici verranno presto: vale anche per il cinema italiano, se saprà sostenere i suoi talenti indipendentemente dalle loro fortune festivaliere.

Girato nella selva friulana, dove la terra è ancora contesa da bestie e uomini, il film è diviso in tre atti: nel primo due personaggi di nome Tommaso e Arturo vagano nei boschi fuggendo da qualcosa. Cadranno sotto i colpi dei cacciatori. Nel secondo la figlia emaciata di un pastore locale, Ariane, scopre uno strano buco nel bosco che, come la tana del Bianconiglio, conduce in una realtà nuova, nascosta, dove la ragazza incontra un lupo dalle fattezze umane, le fattezze di Tommaso. Nel terzo e ultimo atto Tommaso è appena entrato in carcere, accolto da un detenuto filosofo. La prima visita che riceve è quella di Ariane.

Volutamente ermetico e allegorico, I tempi felici verranno presto potrebbe risultare un inutile, frustrante rompicapo per lo spettatore che volesse riannodare i fili di una storia che non possiede, né vuole, una logica ferrea (accontentiamoci di una variazione sul tema Natura vs. Cultura). E’ anzi questa indeterminatezza dichiarata, a partire dallo spaesamento di tempo e di luogo, la chiave d’accesso più produttiva, l’unica a garanzia di un cinema che non offre risposte ma sorprese. Comodin chiede allo spettatore di slacciare le cinture di sicurezza di una visione agevolata, al limite passiva, e di immergersi in una che non cerca di ammaliarlo, incantarlo, ma paradossalmente ridestarlo. Il che è curioso se si pensa al sostrato fiabesco del film, dove Alice nel paese delle meraviglie incontra Cappuccetto rosso e il lupo: l’elemento favolistico non affiora mai in superficie, contentandosi semmai di contaminarla, di segnalare un’anomalia nella realtà, ridotta così a epifenomeno di qualcosa che la precede.

Ecco perché I tempi felici verranno presto risulta un prezioso antidoto contro il realismo magico d’esportazione da un lato e il documentarismo à la page dall’altro (quello che prende una mera opzione di messa in scena, in teoria la meno manipolante, per farne ontologia e manifesto etico/politico). Invece, più lavora l’immagine in senso radicalmente naturalistico  (dalla recitazione amatoriale all’illuminazione senza trucchi), più Comodin ne sottolinea la natura di apparenza, una traccia da cui partire per cercarne l’essenza. Un’opera orgogliosamente piccola, che non ragiona per scale di grandezza, che non cerca mai l’ampiezza né la profondità di campo – come attesta il formato dello schermo, l’1.33:1 di memoria televisiva - ma un’invisibile  quarta dimensione, tra memoria e immaginazione, sul retro del quadro. Che è anche la dimensione di questo cinema nell’ambito del sistema produttivo italiano. Una marginalità di cui si può essere fieri, a patto però che non diventi l’alibi per non scoprirsi e crescere più avanti.