Dopo il verde di Green Room e il blu di Blue Ruin, arriva il buio. Hold the Dark è il terzo film di un’ideale trilogia che Jeremy Saulnier dedica ai colori dando loro sfumature violente e ferali, come a rispondere con il genere alla trilogia esistenziale e intima di Kieslowski (Blu Bianco e Rosso), facendo del proprio titolo una sorta di dichiarazione di stile.

Saulnier gioca su un tavolo ambizioso sin dal plot, tratto dal romanzo omonimo di William Girald: un naturalista esperto di lupi (Jeffrey Wright) viene chiamato da una donna dopo la scomparsa del figlio, preso - come forse altri prima - dai lupi.

Ma la realtà è molto più oscura e coinvolge il marito reduce di guerra e la comunità dell’Alaska chiusa nella sua ritualità.

Scritto da Macon Blair e distribuito da Netflix, Hold the Dark è un tetro dramma antropologico nelle forme del thriller familiare che però denuncia la voglia di aprire i generi a discorsi meno codificati.

A partire dalla sfumature horror e post-apocalittiche (in tutta la prima parte si pensa a McCarthy e a La strada), che passano dal degrado ambientale e umano fino al parallelo con la guerra dall’altra parte del mondo, il film di Saulnier continua a lavorare sulla violenza come elemento costitutivo dell’uomo, della sua formazione sociale, del suo istinto e della sua vocazione comunitaria allargando il discorso alla famiglia e ai rapporti di sangue; ma la violenza raccontata non è mai quella mediata dagli schemi dei generi e non parla attraverso i meccanismi consueti.

Saulnier ha l’ambizione, in Hold the Dark anche più di prima perché privo di fronzoli meta-filmici e svisate di ironia grottesca, di raccontare la morte e l’abominio in modo quasi piano, compresso, come una metastasi e una cancrena che vanno contro ogni legge e s’impongono contro ogni raziocinio.

 

Per questo la sceneggiatura lavora sull’ambiguità, sull’opacità, su indizi o metafore, per questo Saulnier opta per un finale in anti-climax bellissimo in cui la riflessione sull’umano e il bestiale attraverso la caccia giunge a una raffinata conclusione, per questo decide anche filmicamente di “tenere il buio” come dice il titolo e lavora su tempi lenti e vibranti, sulla costruzione oppressiva delle inquadrature e della loro illuminazione per dare peso e forza all’ossessività rituale che lo percorre.

E in ogni caso, per dire del talento del regista, basterebbe la magnifica costruzione della sparatoria posta al centro del film: un talento fatto di puro movimento geometrico.