Al diavolo la morte. La ricerca della vita secondo Claire Denis. Immagini di corpi, di reietti abbandonati nello spazio. L’esistenza che implode, per poi rinascere ad anni luce dalla nostra galassia. Un padre, una figlia. Soli in mezzo alle stelle, che in qualche modo cercano di sopravvivere. Paesaggi alla Tarkovskij: corridoi vuoti, echi di Solaris, ricordi della Terra, rappresentata come una Zona in stile Stalker.

Poi il salto, il flashback. L’ossessione per le origini, il mistero che si nasconde dietro alla nascita. Una bambina in mezzo al nulla, frutto del desiderio di un gruppo di galeotti. Criminali, rigettati dal loro pianeta, e con una missione impossibile: catturare l’energia di un buco nero. Tornare a casa è un’utopia, bisogna ricreare il proprio mondo tra le lamiere di una navicella. La natura fa il suo corso: le pulsioni fluiscono, dalla conoscenza si passa all’attrazione, al contatto fisico.

 

High Life apre le porte all’erotismo, all’unione. Alcune volte bestiale, altre delicato. Per non essere gli ultimi, per non trovarsi senza uno scopo da perseguire. L’umanità non si può estinguere, in qualche modo deve continuare. A qualsiasi costo. Anche se la gravidanza può trasformarsi in qualcosa di non umano: una creatura che cresce all’interno di una donna, e di cui ancora non si conosce lo spirito. Forse un mostro (Alien), forse un santo. In qualche modo per Claire Denis resta sempre un intruso (L’intrus), che viene a scombinare i piani, a portare la magia e il mistero.

Tutto passa dalla carne, da un voyeurismo che non si riesce più a controllare. E deflagra. Nell’aggressione, nell’eccesso, nella perdita di ogni freno. La macchina da presa spia, mostra, diventa testimone. Denis accarezza i suoi personaggi, ne esalta le forme. Realizza il suo film più ambizioso, porta lo spettatore al limite. High Life si specchia in Mangiata viva – Cannibal Love (meglio non ricordarlo con il titolo italiano, ma con quello internazionale: Trouble Every Day), nello shock di “conoscere” l’altro, di scoprire di non poterlo avere. L’unica via è alienarsi, sentirsi lontani da qualsiasi richiamo terreno.

Come fa Monte, astronauta che in molti chiamano: “Il monaco”. Lui coltiva il suo orto, cerca l’equilibrio, respinge gli opposti, si tiene lontano dall’affascinante dottoressa che fa perdere la testa all’equipaggio. Riproduzione, istinto, ma anche il bisogno di regole, dell’intelligenza. Il rischio è il caos, l’anarchia. Ogni volta che muore un capitano qualcun altro deve prendere il suo posto, altrimenti l’astronave si spegne. Autorità, gerarchia. Nel silenzio del cosmo, che resta immobile e non si cura della follia umana.

High Life è uno sci-fi burrascoso, selvaggio, ma allo stesso tempo controllato nello stile, con improvvise esplosioni nella forma (Juliette Binoche nella “camera del piacere”). Un cinema non per tutti, che divide. Amore/odio, senza mezze misure. Magnetico, affascinante, ma anche respingente. Un’esperienza definitiva, nel bene o nel male.