Non Bettino Craxi ma Hammamet. Non chi, ma dove. Nel rileggere la vicenda – l’epilogo almeno, gli ultimi sei mesi – del leader del PSI, Amelio riparte da dove la narrazione nazionale lo aveva lasciato: Hammamet.

Luogo dal sapore esotico, spazio reale e immaginario, di confino, fisico e psicologico. Il punto di forza di questo biopic senza nome è nella volontà di riaprire una discussione sugli ultimi 30 anni di storia italiana vagliandola con gli strumenti della psicologia collettiva, laddove Craxi incarna a un tempo la nostalgia del leader e il capro espiatorio, facce della stessa medaglia nella perenne tendenza del paese alla creazione e alla rimozione dei suoi totem.

Un tentativo, dicevamo, che si espleta nella riduzione di fenomeni complessi e contraddittori, come la fine della Prima Repubblica attraverso la scure di Tangentopoli, all’individuazione di un dove pacifico piuttosto che di un quando da analizzare, perché nel paese senza memoria, dove tutto si oblitera nell’indignazione, nell’avanspettacolo e infine nell’oblio, prevale la logica del calderone. Che è uno spazio appunto, non un processo.

Hammamet è un film già condannato, in ciò condividendo il destino del suo protagonista. Tra il dove eravamo del prologo – PSI primo partito, Craxi in inarrestabile ascesa, l’Italia quinta potenza industriale al mondo – e il dove siamo del finale (uno dei tanti, almeno), ovvero alla parodia, al varietà della storia e dei suoi protagonisti, non c’è sviluppo, ma una lunga e drammatica ellissi.

Condannato alla reiterazione del presente, il “presidente” non ha tempo (anche per via del diabete che lo sta consumando) ma solo la possibilità di uno spazio da cui evadere solo attraverso l’espediente della memoria e del sogno.

Quella stessa memoria tuttavia che tutto sembra fuorché di ferro, quando dimentica, non ricorda, cose dette solo qualche ora prima (al figlio di un suo compagno di partito) o eventi invece chiarissimi per i suoi familiari (come nel caso della moglie, che gli rammenta la figuraccia durante la visita alla regina d’Inghilterra) e che sembra alludere a quei cortocircuiti mnemonici di cui l’Italia tutta è affetta.

E se il film s’intesta, forse non con tutta la consapevolezza del caso, la volontà di raccontare la nostra storia recente partendo dalla “deposizione mancante”, dalla voce dei suoi sconfitti, non lo fa tanto per ribaltarne il giudizio – la verità di Craxi è la “sua”, con tanto di virgolette – ma per ristabilirne l’ampiezza prospettica, affiancando alla verità giudiziaria, quella storica, psicologica, politica. Nel farlo non scioglie le riserve, non confonde mai compassione e assoluzione, evidenzia semmai l’interrogativo, l’enigma dell’uomo di potere il cui vivere politicamente al di là del bene e del male, della salute e degli affetti, lo “confina” giocoforza al di là di ogni sistema, in una solitudine riempita essenzialmente dall’ego.

Alla fine il Craxi che fugge il giudizio delle procure è anche il personaggio che sfugge al giudizio tout court, tanto mimetico nell’impressionante riappropriazione di Favino, quanto imperscrutabile nella sua verità umana. Una sospensione che resiste alla concatenazione dei discorsi – fulminanti alcuni dialoghi scritti da Amelio con Alberto Taraglio – e ai tanti, troppi, indizi metaforici disseminati da Amelio. 

Dopotutto la posta in palio, ancora una volta, non è sapere chi era Craxi, ma dove lo abbiamo messo, trasformarlo – attraverso lo stratagemma della re-inquadratura effettuata da un fantasmatico testimone “armato” di videocamera – da bersaglio a obiettivo (giocando con la duplice accezione del verbo shooting).

È un altro significativo rovesciamento prospettico, dopo quello dell’accusatore che diventa Traditore nel film di Bellocchio (sempre per il tramite attoriale di Favino). La sostanza dietro l’intimismo di facciata.

Nella loro diversità i due autori sembrano convergere su una nuova stagione del cinema politico italiano. Ecco il dove da cui ripartire. Dovere nostro provare a seguirli.