Quarto lungometraggio di Nadav Lapid, Ha’berech (Ahed's Knee) corre per la Palma d’Oro: una prima volta per il regista israeliano. Reduce dal successo di Synonymes, Orso d’Oro a Berlino nel 2019, ritrova parzialmente temi e atmosfere, non il valore: tanto ambizioso quanto confuso, autobiografico quanto solipsistico prima e arruffapopolo dopo (e fuori tempo massimo), prende il titolo internazionale dell’attivista palestinese Ahed Tamimi, ispirazione del prossimo lavoro del filmaker israeliano Y. (Avshalom Pollak). Y. raggiunge in aereo un villaggio sperduto nel deserto, dove su invito di un addetta del Ministero della Cultura Yahalom (Nur Fibak) presenterà il proprio film, ma l’occasione si rivela infida: la ragazza gli chiede di compilare un form indicando i temi del dibattito…

Lo spunto è doppiamente biografico: qualcosa del genere è accaduta a Nadav nel 2018 allorché gli venne sottoposto un analogo formulario per il Q&A di The Teacher, e il rapporto di Y. con la madre deriva dalla perdita della propria, già montatrice dei suoi film. La confluenza dei due eventi proietta un doppio lutto: la libertà di Israele, la scomparsa della donna, sublimate dalla sceneggiatura di Lapid, che spazza il campo dal dilemma amore per Israele / critica per il governo israeliano concentrandosi sul secondo, ovvero privilegiando l’odio, di cui si incarica Y.

Qualche svolazzo di camera fastidioso, qualche traccheggio inutile, quando si scalda la materia, si è già raffreddato il pubblico, che probabilmente rivaluterà a dismisura il “gemello diverso” Foxtrot di Samuel Maoz (2017), invero non eccelso.

Critica della ragion militare patria, del regime liberticida, dell’ignoranza del popolo, Lapid fa l’agit-prop, ma c’è sempre una fastidiosa distanza tra il suo dire e il nostro vedere, il suo farci vedere e il nostro credere: l’elaborazione del lutto duplice, madre e Paese, partorisce un film intorcinato, leggerino, violento sul piano epidermico, arreso nel profondo. Ma arresi più di tutti sono gli spettatori.