Nove anni dopo Piccole bugie tra amici, Guillaume Canet riunisce la sua banda di connard e passa accanto alla sua epoca. Perché i personaggi che avevamo lasciato sulle immagini di un funerale, quello del loro amico morto solo in ospedale (Jean Dujardin) mentre loro mangiavano ostriche sulla costa, sono rimasti uguali a se stessi, ‘tra loro’, disconnessi dal mondo e incapaci di comprendere la realtà contingente.

Tra qualche anno, quando ci si domanderà come la società francese abbia potuto spaccarsi fino a schierare dei Gilets Jaunes asfissiati da un regime endogamo, Nous finirons ensemble (questo il titolo originale) si dimostrerà illuminante.

Il film di Canet è il testimone eclatante dell’incuria e dell’oscenità della sua epoca, e più specificatamente di quelli che credono di avere ancora il tempo di finire insieme.

Se il rimprovero mosso a Canet nel 2010 era la totale inconsistenza dei suoi personaggi, nove anni dopo, tre nella finzione, il biasimo, se possibile, è ancora più accorato.

Nonostante la sua artificiosità in Piccole bugie tra amici dimorava ancora un punto di vista tecnico che teneva insieme l’insieme. Le scene umoristiche si articolavano intorno a calibrati tempi comici e la gestione dello spazio tradiva sovente una certa sensibilità dello sguardo.

Tutto questo sparisce nel secondo capitolo spiaggiato sulla sabbia ossidata di Cap Ferret e rimpiazzato da un montaggio monotono e una fotografia scolorita. Assente a se stesso, Canet non riesce a gestire le sue intenzioni, ammesso che ne abbia.

Ripiombato dentro un film corale con la stessa galleria di personaggi autocentrati e antipatici non riesce a farli a pezzi con la farsa, né a sondarli seriamente con la cronaca di costume.

Vivaio borghese, che tradisce preoccupazioni immobiliari ed economiche, vagamente interrotte da rigurgiti di sentimentalismo, Nous finirons ensemble non ha altra base (sociale, umana) che quella del narcisismo dei suoi partecipanti e delle eterne macerazioni di Canet su ‘celebrità’ e show business, affrontate altrove con più ferocia e crudeltà. (Mon Idole, Rock’n Roll).

A questo giro di motoscafo, il capro espiatorio, personaggio che serve a mettere in crisi il collettivo e poi a rinsaldarlo, è il ristoratore parigino in ambasce e sull’orlo di una crisi di nervi di François Cluzet.

Oberato dai debiti e un’altra volta insopportabile, è assediato dagli amici, sbarcati a sorpresa a Cap Ferret per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno. Inattesi e indesiderati, vorrebbe soltanto vederli sparire al più presto.

Ma loro restano provando a comprendere le ragioni del suo malessere. È l’inizio di una convivenza lunga e noiosa come i suoi convenuti che si amano, detestano e riconciliano a tavola o a letto. Nemmeno un lancio col paracadute procura adrenalina e cattura l’interesse dello spettatore, abbandonato e fluttuante come Marion Cotillard (insostenibile) sopra il vuoto.

Il solo desiderio dentro un film in caduta libera è di finirla subito. Di finirla con loro. E pensare che Canet aveva giurato che il suo film non avrebbe mai avuto un seguito.

Ma cinque milioni di biglietti venduti per Piccole bugie tra amici sono una buona ragione per arrangiarne uno. Il personaggio più simpatico resta quello di Laurent Lafitte, il più maltrattato, gli accade di tutto: edema di Quincke, cadute, affondamenti, scacchi amorosi.

Primo della classe senza complessi, l’attore ‘certificato’ Comédie-Française è il solo a non beneficiare di nessuno sconto comitiva, il solo ad assumere fino in fondo la naïveté del suo personaggio dentro un feuilleton senza età sui turbamenti dei ricchi del cinema francese.