Non chiamateli più nerd. Né asociali, inetti o peggio psicolabili. I ragazzi cresciuti nella camera-caverna con il joystick in mano ora sanno vivere e guidare auto come e meglio dei professionisti.

È il caso dell’adolescente Jann Mardenborough che ha speso la sua infanzia davanti alla PlayStation, sfrecciando sulle piste di Gran Turismo, fin quando vince la Nissan PlayStation GT Academy, una simulazione di gara per incoronare il videogamer che sarà pilota professionista.

Jann, così, è catapultato contro le resistenze dalla famiglia dal joystick al volante, dallo schermo all’asfalto rovente. All’inizio, però, annaspa: diventare professionista significa massacrarsi di allenamenti, gestire pressioni e adrenalina prima impensabili. A fargli da mentore c’è Jack Salter (David Harbour, il personaggio scritto e recitato meglio) ombroso ex pilota, ora ingegnere frustrato intento a leccarsi le ferite del suo passato traumatico.

Solo che la realtà è più impervia del videogioco: in gara spallate, scorrettezze, azzardi, rischi anche mortali si moltiplicano. Jann, così, trascinato via di forza dalla sua comfort zone, deve rispondere a responsabilità sempre crescenti per essere ammesso tra i professionisti.

Proprio nella focalizzazione interna negli occhi di un adolescente prodigio, Neill Blomkamp gioca le sue carte migliori. Regia esuberante, pirotecnica, diciamo anche “attrazionale”, mantiene la tenitura drammatica senza scadere nel sensazionalismo gratuito, stando attenta anzi, per pulizia narrativa, a percorrere tutte le svolte emotive del suo protagonista. Tra dronate in picchiata sul circuito e muro sonoro tecno-trap, il coming of age su quattro ruote s’ibrida con il fotorealismo del videogioco che si riversa nella realtà e viceversa. Risultato: esuberanza stilistica, passo adrenalinico e congruenza di tono non mancano mai. 

La focalizzazione su Jann, però, non esclude uno sguardo panoramico, sociologico, curioso di intrufolarsi nel paddock, tra giornalisti e bandiere a scacchi, tra bulloni, ruote e marmitte, nel caos dei box, tra la folla in festa. Insomma, una gara per Blomkamp è sempre un evento collettivo, ed è un piacere assistervi.

Tra realismo e incalzare scenico della narrazione, però, l’impressione è che lo script, così trasparente e tradizionale, per fedeltà alla storia vera di partenza, non sfrutti al meglio tutte le carte: la romance tra Jann e Sarah sbocccia senza problematica; lo stesso Archie Madekwe, così monolitico nelle espressioni, non entusiasma, senza dimenticare il peso conflittuale della famiglia, ininfluente nel troncone centrale della storia (ma decisivo altrove).

Insomma il video-realismo di base rimane tale, non lievita in un sincretismo innovativo e originale, ma Blomkamp, tra product placement, cast di grido (c’è anche Orlando Bloom, visionario manager Nissan che ingaggia Jann) e immaginario già “confezionato”, ballando di continuo sul doppio filo realtà-finzione, corse-videogioco, in fondo cade in piedi (grazie anche all’imponente produzione internazionale).

Perché, scaltramente, della storia di partenza mantiene, via Rocky, l’ossatura favolistica – il dilettante a cui piove dal cielo l’occasione della vita – per conquistare, oltre gli appassionati del videogame, il larghissimo pubblico, accodandosi alla sfilza di prodotti videoludici del momento (da Uncharted a Super Mario, senza dimenticare The Last of Us).

L’ambizione dichiarata è replicarne le gesta al botteghino; la promozione si preannuncia massiccia, l’uscita italiana (Eagle Pictures), da fine agosto è scivolata al 20 settembre per cause maggiori di Hollywood Strike. Sarà vera gloria?