In attesa che qualcuno di buon cuore promuova in pompa magna una moratoria sulle storie ambientate in futuri dispotici, Gold ci propina ancora una volta personaggi senza identità che arrivano chissà da dove e si trovano in un non-luogo che somiglia a un deserto, una landa arida e desolata.

Il titolo ci indica il motivo per cui si sono diretti lì, fuori dal mondo: la più grande pepita d’oro mai vista, simbolo di ricchezza – quindi la possibilità di cambiare vita – ma anche emblema dell’avidità umana. Nell’attesa che “uomo 2” (così sui titoli di coda; in realtà si chiama Keith) si procuri una escavatrice per estrarre la pepita, “uomo 1” (ovvero Virgil: ah, le metafore) aspetta vicino alla riserva: rimasto solo, senza acqua e ovviamente fuori campo, riparandosi con i rottami di aereo, comincia a deteriorarsi nel corpo e si lascia sopraffare dalla paranoia. Dopo qualche giorno, in un tempo dilatato sia all’interno del film che nell’esperienza dello spettatore, spuntano due donne che faranno una fine ingrata.

Terzo lungometraggio dell’australiano Anthony Hayes (anche attore, sceneggiatore con Polly Smith e produttore insieme a John Schwarz e Michael Schwarz), Gold non nasconde le ambizioni del suo autore: la ricerca di una narrazione che procede per simbologie e accarezza l’ipotesi di una mitologia; lo stile contemplativo che esalta i lati minacciosi del rapporto tra uomo e natura e al contempo ha l’intenzione di scandagliare tormenti e ossessioni dei personaggi; la fotografia di Ross Giardina che si accorda alle musiche di Antony Partos nel desiderio di delineare un orizzonte al contempo carnale e onirico, terragno e arcano. E però nei fatti la regia cerca invano di attutire le accidie di una scrittura che si affida soprattutto all’ipotetico portato iconico di immagini poco più che patinate, senza mai uscire dalle trappole di un cinema che vorrebbe incrociare il modello del b-movie con la pretesa art-house.

Gold
Gold
Gold
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Siamo di fronte a qualcosa che intenzionalmente cerca di sfuggire dalle classificazioni dei generi ma si rivela infine confuso e disordinato. Un po’ è un dramma sulle conseguenze del peccato, un po’ un survival movie in cui c’è un uomo chiamato a sfidare se stesso, un po’ è una parabola sul titanismo, un po’ è un thriller en plein air, un po’ è un’allegoria sul destino del mondo.

C’è la buona intuizione di sfruttare gli spazi vuoti e isolati, la carenza di viveri, l’horror vacui. Ma a mancare sono il peso della tensione, l’empatia nei confronti dei personaggi e dei loro obiettivi, il senso della fine che dovrebbe elevare l’inquietudine a chiave di lettura sulla tragedia di un mondo divorato dalla brama di potere e incapace di mettersi accanto al prossimo.

Dalla sua, Gold ha la performance generosa di Zac Efron, che continua nella sua lotta per emanciparsi dallo statuto di teen idol evidentemente duro a morire, considerando che High School Musical risale a più di quindici anni fa. Come in altre occasioni (Beach Bum – Una vita in fumo, Ted Bundy – Fascino criminale) si impegna molto al di là dei risultati complessivi dei film e stavolta ha anche l’intelligenza di non sfociare nell’overacting: niente male, peccato che non sia ben servito dall’autore, forse convinto che per dare spessore al film bastasse la prova inconsueta di un divetto in cerca di ricollocamento.