Più che un genere, il biopic è un laboratorio: niente come la vita di un personaggio celebre costituisce lo spazio per tradire e tradurre, restituendo una parabola esistenziale con fedeltà di fondo ma senza l’obbligo della cronaca. In questo senso il cinema è davvero un oggetto contundente, perché produce un immaginario che spesso va a sostituire il resto, fissando i fatti secondo il filtro della rielaborazione artistica, anzi della leggenda che Hollywood privilegia da sempre in quanto forma della realtà.

Tutto ciò per dire che un soggetto eccezionale come Billie Holiday non meritava un racconto così scolastico, dove magari – come sostengono quei noiosi dei puristi – non tornano date e luoghi degli eventi, ma che superficialmente non si discosta dalle biografie che fino a pochi anni fa pullulavano nei canali generalisti.

Non che ci aspettassimo qualcosa di troppo raffinato da Lee Daniels, che non firmava un lavoro per il grande schermo dal polpettone The Butler e negli ultimi anni si è dedicato alla serialità con Empire: lo ritroviamo l’autore che non è mai stato, nonostante l’interesse che destò ai tempi di Precious (eravamo all’alba dell’era Obama), incapace di dare spessore alla sceneggiatura dell’acclamata drammaturga Suzan-Lori Parks, di accompagnare la pur intensa performance di Andra Day (star R&B, debuttante al cinema e subito premiata con il Golden Globe) e non affidarsi alla sua presenza, di offrire allo spettatore una chiave di lettura e non indicare un percorso preimpostato.

Gli Stati Uniti contro Billie Holiday
Gli Stati Uniti contro Billie Holiday
Gli Stati Uniti contro Billie Holiday
Gli Stati Uniti contro Billie Holiday

Che in questo caso è rievocare – e omaggiare – l’esistenza travagliata di un’icona della cultura americana che fu osteggiata dal potere, come dichiarato esplicitamente dal titolo. Gli Stati Uniti contro Billie Holiday parte dalla condivisibile tesi che la musica di una delle più dirompenti cantanti di sempre abbia influenzato e ispirato la comunità afroamericana, in particolare Strange Fruit, ormai classico jazz che denuncia i linciaggi dei neri nel sud rurale e dove lo “strano frutto” sta per il corpo di un nero che penzola da un albero. Un brano capace di scuotere profondamente e che divenne subito un inno dei diritti civili, dimostrando che Holiday non era solo una artista seducente ma soprattutto la voce di una comunità capace di farsi perturbante e militante.

“Va fermata perché fa pensare a cose sbagliate” si allarmano i funzionari dell’FBI (tra loro si riconoscono i famigerati Joe McCarthy e Roy Cohn), consapevoli tuttavia di non poter arrestare una cantante. Buon per loro, la cantante è una tossicodipendente, dunque attaccabile. “Mi perseguitano perché quella canzone li ricorda che ci stanno uccidendo” sostiene Billie, guardata a vista da Jimmy Fletcher, un agente nero che si spaccia per soldato, incaricato dall’agente Harry Anslinger (l’antagonista del racconto: fu alfiere del proibizionismo degli alcolici e promotore di quello della cannabis) di entrare in confidenza con la star per incastrarla.

E la sceneggiatura configura il rapporto tra Jimmy e Billie in termini melodrammatici, dove il primo mette in campo la reticenza e postula il tardivo rimpianto e la seconda fa deflagrare la fragilità e lascia presagire il triste destino. Un pezzo che comunque non irrobustisce un film disorganico, didascalico, senza nerbo né picchi.