L’assenza di luce pervade lo schermo, in sottofondo un rumore di passi e d'un tratto una voce femminile esordisce con “Quante stanze sono?”, domanda a cui risponde un uomo. Poche battute anticipano una conversazione. Siamo in una villa sfitta di Saint Tropez, è inverno e la donna che appare con i capelli corti neri, abito anni sessanta in pieno stile Swinging London d’oltralpe, stivali e pelliccia maculata, è Suzanna Andler.

Questo è l’incipit del film Gli amori di Suzanna Andler di Benoît Jacquot, adattamento dell'omonima pièce di Marguerite Duras (1968) con protagonista Charlotte Gainsbourg, già presentato fuori concorso al 39. Torino Film Festival.

L’argomento del colloquio riguarda l’affitto della villa per i mesi estivi e, dopo aver promesso un responso entro la fine del pomeriggio, la chiacchierata del sopralluogo cambia repentinamente, incagliandosi in intime considerazioni. “Sono la donna più tradita di Saint Tropez”, intercede candidamente Suzanna, moglie borghese di un ricco infedele, preludendo così le dinamiche che muoveranno dramma.

Sono le 11:25, il campo d’azione è circoscritto e la scena è pronta. Suzanna rimane sola, libera di muoversi in un silenzio evocativo, finché non viene raggiunta dal primo dei tre interlocutori cardine della narrazione: l’amante Michel (Niels Schneider). La macchina da presa inizia ad avvolgerli, a scrutarli e seguirne il botta e risposta condizionato dal non tacito accordo di “non parlare del passato”, evitando un coinvolgimento totalizzante che comporti il rischio di compromettersi emotivamente, alterando l'assodato stato delle cose.

Il pericolo è rivelarsi e comprendere come alcune scelte siano dettate più dall’apatia che dal desiderio scaturito da un’impossibile emancipazione. L’attesa condizionata dal cocente dilemma, tra l'abbandonarsi alla spinta vitale dell’affrancamento o accettare la stabilità, seppur umiliante e convenzionale, di una vita familiare e per questo (forse) più rassicurante.

A palesarsi, nel corso di poche ore, altri due interlocutori: l’amica Monique, a cui rimandare un’immagine di sé trascendente, a tratti irreale, confermando quell’epiteto utilizzato per descriverla, “inconoscibile”, rispecchiando l’insita duplicità che si nutre di dignità borghese ed incomunicabile straniamento; e poi il marito Jean, carnefice nell’esortarla a scoprirsi altra e vittima del decadimento. Eppure la voce di Suzanna è sempre esile, senza accenni baritonali o isterici, come invece richiederebbe l'aggravarsi di una crisi lacerante.

Il fluire delle parole resta costantemente indefinito e articolato da espressioni dense, a volte crudeli, e al contempo pregne del desiderio di amore e di morte. E nell’acme mai raggiunto, le voci iniziano ad allontanarsi, mescolandosi al fragore del mare, fino al manifestarsi di una visione luttuosa dove, di nuovo, il desiderio di morte si smaterializza lasciando il posto alla straziante indeterminatezza.

Le caratteristiche del kammerspielfilm e le tre unità aristoteliche sono rispettate in una trasposizione a cui resta attaccata un’evidente connotazione teatrale e un impianto drammatico a momenti gravoso da seguire. Le tematiche dell’autrice però rimangono riconoscibili nel tratteggiare una fallita catarsi in cui è difficile distinguere la verità dalla menzogna.