La versione di Giulio. Dal 1947 al 1953, Giulio Andreotti, appena ventottenne, è nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo. L'incarico dura sino al 1953 e, in questi pochi anni, il futuro Divo è sostanzialmente il dominus della cinematografia italiana, all'epoca appena emersa dalle macerie del secondo conflitto mondiale.
Tatti Sanguineti, in coppia con Pier Luigi Raffaelli, ripercorre quegli anni vis à vis con Andreotti in persona, nel corso di interviste registrate fra il 2003 e il 2005 e che, intervallate da spezzoni di cinegiornali, fotografie e intere sequenze cinematografiche, ricostruiscono l'esperienza di quegli anni nel dopoguerra.
Il Divo non si sottrae, anzi appare persino divertito, impegnato com'è nella rievocazione del tempo perduto, dei suoi rapporti, mai cessati, con operatori del settore: produttori, attori e registi; gli accade poi spesso di stupirsi dinanzi al ritrovamento di documenti vecchi di cinquant'anni che testimoniano della sua attività censoria, se non del suo accanimento, nei confronti di opere all'epoca giudicate lesive della dignità italiana (ahi, questo Neorealismo...).
Stupore, quello di Andreotti, da cui egli riesce a districarsi con consumata perizia e con classe inimitabile. Centrali, dunque, in questa godibilissima testimonianza di Sanguineti, si rivelano i confronti sui temi del rilancio della cinematografia italiana - realizzato a suo tempo tramite una Legge di sostegno al cinema, - e della censura, all'epoca indirizzata dal giovanissimo sottosegretario della Dc verso un appoggio incondizionato al cinema “ottimista”. Tanti, infine, i momenti memorabili, dai tagli imposti e dalle strizzate d'occhio dei film di Totò (indimenticabile il “pesce democristiano” di Fifa e arena che cela le forme di Isa Barzizza) a quelli di Fernandel/Don Camillo, alle famigerate foglie di fico del cinegiornale Incom, sino a episodi celebri come la polemica intorno a Umberto D. di Vittorio De Sica o la beatificazione di Maria Goretti.
Ancora una volta, dunque, a proposito del Divo emerge il ritratto di una figura inafferrabile, certamente decisiva per la storia italiana anche nel campo della cultura e dell'immaginario, trincerata dietro un'ironia affilata e, nonostante le ambiguità conclamate, esilarante.