Non citeremo un vecchio quanto irresistibile sketch della Tv delle ragazze per chiederci - e ottenendo una risposta sbagliata - come faccia Julie, la protagonista di Full Time - Al cento per cento, a gestire una vita piena di impegni e vissuta sempre di corsa. Ma davvero ci si chiede come riesca a fare a tutto, a soddisfare le esigenze altrui mettendo da parte se stessa con i suoi sogni e bisogni.

Un orizzonte che risulta più chiaro pensando al titolo originale, À plein temps. È una vita a tempo pieno, quella di Julie, strattonata tra centro e periferia, che non ha un attimo di fiato, non si ferma mai, attraversa di corsa le strade in superficie e sotterranee di una città che sembra ignorare la sua quotidiana lotta per la sopravvivenza.

Al secondo lungometraggio di finzione (presentato a Venezia 78 nella sezione Orizzonti e premiato per la miglior regia e la miglior attrice, e al XXV Tertio Millennio Film Fest dove ha vinto il premio della Giuria di qualità), Èric Gravel non dimentica la lezione di Ken Loach e dei fratelli Dardenne, concentrandosi sul destino di una figura marginale rispetto alla narrazione ufficiale di una nazione en marche.

Proletaria dei giorni nostri, madre sola di due figli e ora cameriera di un hotel di lusso dopo aver perso il lavoro di addetta alle ricerche di mercato, Julie è l’ingranaggio di una macchina che non tiene conto della sua presenza ma si serve delle sue prestazioni pubbliche quanto private, facendosi emblema nolente di un ceto dimenticato.

Quella di Gravel è un’idea di cinema sociale – dunque politico – sì tradizionale per impatto sociale e voltaggio empatico eppure connessa con la contemporaneità, dove la rapidità spesso elevata a valore si configura qui come la trappola per una donna condannata ad abitare tempi stretti e costretti. E che a partire dall’esperienza del singolo sa illuminare una storia collettiva.

Girato con il ritmo implacabile del thriller, Full Time - Al cento per cento spoglia di retorica una vicenda ad alto tasso retorico, stando addosso a una donna che non è un’eroina ma, in una società che sfrutta e spolpa, finisce per compiere dei veri e propri atti da eroismo. Con un’interpretazione senza fiato, Laure Calamy è straordinaria nel non farsi cannibalizzare dalla frustrazione, lasciando sempre intravedere la luce di una possibile speranza.