Tratto da Par ce demi-clair matin di Charles Péguy, France è diretto da Bruno Dumont, presenza ondivaga ma abituale sulla Croisette, dove cinque anni dopo Ma Loute ritrova la competizione.

Protagonista Léa Seydoux, al quarto film a Cannes 74 da cui è assente per Covid, che incarna la giornalista star della tv France de Meurs, accompagnata in studio e sul campo, spesso di guerra, dalla fidata e divertente assistente (Juliane Köhler), mentre a casa l’attendono – si fa per dire – il marito scrittore Benjamin Biolay e il figlio piccolo. Sulla cresta dell’onda, ammirata e inseguita come una diva del cinema, France va in crisi allorché investe un poverocristo: molla la televisione, va in un lussuoso rehab, dove verrà turlupinata da un sedicente insegnante di latino, e proverà a risalire la china, con dubbi risultati…

Inteso da Dumont quale riflessione sulla società mediatica, e dello spettacolo, sullo sfondo della Francia contemporanea, il dramedy non è riuscito, nonostante l’abituale bravura mesmerizzante della Seydoux, perché tremebondo e cincischiato nell’arco narrativo e nell’evoluzione/involuzione dell’eponima France.

La sequenza iniziale, che vanta non solo l’accesso all’Eliseo ma anche la partecipazione parlante del presidente Emmanuel Macron nella parte di sé stesso, lascerebbe intendere ben altro destino, al contrario, la critica allo showbiz giornalistico è velleitaria e parziale, se non contraddittoria, e gli eventi del film, per lo più citofonati, difficilmente sono ascrivibili a una logica unitaria.

Una mediocrità poco aurea, quella di un Dumont irriconoscibile, sicché vive la France rimane strozzato in gola.