“Il rimosso del singolo, la ricostruzione frammentaria e onirica della memoria collettiva. […] smussa la ‘rigidità’ del documentario per intraprendere uno sconvolgente viaggio à rebours, percorso ipnotico e liquida danza nei meandri del ricordo perduto”. Su queste colonne così scriveva, ormai tredici anni fa, Valerio Sammarco: non di Flee, ovviamente, ma di un’animazione documentaria o, se preferite, un documentario animato il cui esito poetico, perfino la sostanza umana, poco si discosta dall’opera del danese Jonas Poher Rasmussen.

L’antecedente è Valzer con Bashir (2008), in cui il regista israeliano Ari Folman riversava i residui della propria storia bellica (a) scomparsa, del proprio vulnus biografico, non belligerante, e nemmeno pacificato, bensì rimosso: “Impossibile, pertanto, immaginare un medium che non fosse il fumetto, la traccia animata, per rendere con maggior incisività le dinamiche di un trip dalla cupezza allucinante, a tratti surreale e gelatinoso, tentativo di autoanalisi psichedelica che squarcia con potenza e giustificato “disordine” i muri edificati dall’oblio”.

Se leviamo qualche attributo, ovvero psichedelico, surreale e gelatinoso, Flee non cade lontano: non ha l’incedere del Valzer, non ha la prima persona del narratore ma del testimone, nondimeno, anch’esso è strattonato ontologicamente, per via veridittiva, tra la credibilità “oggettiva” del documentario e la creatività “soggettiva” dell’animazione. Mutatis mutandis, la vulnerabilità dalla storia, segnatamente dalla vita, tracima nel racconto: l’animazione in quanto genere fa da “buttadentro” nei confronti dello spettatore e al contempo da “buttafuori” emotivo (e terapeutico) per quanto concerne il protagonista nella mediazione del regista; il documentario in quanto genere corrobora, dicevamo, in termini di realtà (e verità).

Nell’epoca della disintermediazione, Flee appunto si fa corpo intermedio o, meglio, intermediato: prende dall’uno (documentario), prende dall’altro (animazione), prende dall’altro, ancora, ovvero l’afgano Amir che cerca asilo. Nella tripletta inedita che ha fatto registrare alle nomination per la 94esima edizione degli Academy Awards, documentario, animazione e film internazionale, alla terza categoria sarebbe giovato il vecchio appellativo Best Foreign Language, giacché l’aspetto linguistico e la condizione straniera sono elementi dirimenti e fondamentali per Flee. Creatura ibrida per status, anfibia per foggia, è straniante sicché straniera, dunque ci chiama a giocare a specchio, a un’esperienza omologa, paritetica – si capisce, in quanto spettatori – a quella di Amin.

Qui subentra la deontologia del danese dietro la macchina da presa, giacché il dispositivo cinematografico, il meccanismo di ripresa – ripresa, in un’animazione, sicuri? – non è eliso, non è eluso, ma intenzionalmente – e sgrammaticamente - esibito: quando Amin - pseudonimo, per proteggerne l’anonimato - si accomoda sul divano per raccontarsi a Rasmussen, ecco che un ciak entra in campo e, ridacchiando come e prima di noi, i due debbono ricominciare la scena. E, con quella risata, dichiarare il mezzo sul piano metatestuale e prepararci allo strazio su quello emotivo. Con una disposizione, un ordinamento differente rispetto al flusso magmatico, alla licenza pindarico-onirica di Valzer con Bashir: Flee ci trasmette “la sensazione - ha rilevato ottimamente David Katz su Cineuropa - di ‘accedere’ effettivamente alla memoria, un po’ come i livelli di realtà nel lavoro di Christoper Nolan”.

Sarà l’attitudine scandinava, sarà che l’uomo che si cela dietro Amin è un accademico, Flee è un film ordinato, a tal punto da far ordine nel rimosso, con l’effetto di espandersi fruibilità e comprensibilità e, al contempo, di calmierarsi il fascino, persino l’impatto. In fondo, il risultato terapeutico eccede la risultanza spettacolare, la funzione il funzionamento, ed è un altro traguardo ideologico. Intendiamoci, lo strazio non è contingentato. Dalle ultime fasi del conflitto tra afgani e sovietici negli anni Ottanta – indimenticabile la sequenza su Take on me degli A-ha - all’approdo in Russia con la madre, il fratello maggiore e le sorelle, fino ai reiterati tentativi di trovare asilo più sicuro nell’Europa occidentale: oggi che Amin ha trentasei anni, è un affermato professore e sta per sposarsi è il momento di dirsi la verità.

C’è dolore e catarsi: presa coscienza delle sue peripezie kafkiane e disperanti, non possiamo rimanere indifferenti, non possiamo non riverberare quell’odissea su quelle dei migranti qui e ora, chiederci come sia ancora possibile. Classe 1981 e con altri documentari in carnet, Rasmussen, nonché il Sun Creature Studio di Copenaghen responsabile delle animazioni, ha fatto un ottimo lavoro. Umano, molto umano.