Flag Day di e con Sean Penn. Due notizie. Prima la buona: non è il precedente, il tremendo The Last Face, la cui devastante accoglienza da parte della stampa nel 2016 a Cannes costrinse l’anno dopo il festival francese a embargare recensioni e commenti social fino alla fine della proiezione di gala. Poi la cattiva: non è, comunque, un grande film.

Basato sulla vera storia di John Vogel, rapinatore e falsario tra i più grandi della storia americana, trasposta nel libro Flim-Flam Man dalla figlia Jennifer, Flag Day racconta il rapporto ambivalente tra la stessa Jennifer (Dylan Penn, avuta da Robin Wright) e il padre, personaggio larger than life e quintessenza del sogno, seppur deviato, americano, che per la prima volta in una sua regia Sean interpreta egli stesso. A rincarare il formato famiglia è anche l’altro figlio, Hopper Jack Penn, che interpreta quello di Vogel Nick.

Il gioco di specchi tra verità e finzione, o meglio persona e personaggio, riverbera pesantemente sul film, giacché senza nulla togliere a Dylan Penn che non è solo figlia d’arte ma attrice più che promettente viene il sospetto che, rapine e falsificazioni a parte, stiamo vedendo un filmato di famiglia, in cui Sean riflette il proprio narcisismo – gli piacerebbe – maudit e i figli godono di luce riflessa, sfruttando, Dylan, l’assertività e l’autonomia di Jennifer.

Case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale, o giù di lì, la memoria del magnetico e pericoloso, imprevedibile e tenero, generoso e assente padre informa il film nel ricordo di Jennifer, ma è come se sfogliassimo l’album della famiglia Penn, che non sarà necessariamente un danno, ma un limite e una diminutio un po’ sì.

Se non mancano sequenze fascinose, scene indovinate (la finta telefonata di John al concessionario), il film è lungo, ripetitivo, perfino stucchevole nel ritratto del papà tanto amato, e osteggiato, quanto maledetto: c’è di che compiacersi, qui e là, anche per lo spettatore, ma la terapia familiare avrebbe giovato di più.