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Il dollaro torna sempre sul luogo del delitto. Dopo il fenomeno globale di Five Nights at Freddy’s, il film tratto dal videogioco che nel 2023 incassò oltre 297 milioni di dollari in tutto il mondo, inevitabile era il sequel: ecco dunque Five Nights at Freddy’s 2, con la stessa regia di Emma Tammi, con la stessa produzione Blumhouse ossia quel genio commerciale di Jason Blum, che si sfrega le mani davanti al secondo prevedibile boom. Ma criticamente ci sono dei problemi, che restano intatti e anzi vengono rafforzati nel secondo capitolo.
Un anno dopo gli eventi. Josh Hutcherson è ancora Mike, il guardiano notturno del Freddy Fazbear’s Pizza, Piper Rubio è ancora la sorellina di undici anni, a cui è stato taciuto il reale destino degli “amici” animatronici; Elizabeth Lail abita nuovamente il ruolo di Vanessa, agente di polizia e figlia del serial killer William Afton che coi suoi delitti ha generato la storia. Il nuovo tassello si innesca quando la giovane Abby, approfittando dell’assenza del fratellone per un dating, esce di casa per aggiustare gli amati esseri, ovvero Freddy, Bonnie, Chica e Foxy. Prima di questo però abbiamo un teaser che funge da origin story della serie: un’amabile festa nella pizzeria, piena di bambini e giochi da fare, che viene funestata dalla scomparsa di uno di essi sfociando in un crudele omicidio. Un trionfo della morte battezzato da una creatura chiamata Marionetta. Questa, purtroppo, è anche la sequenza migliore del film.
Dopo infatti si srotola un sequel che ribadisce gli elementi dell’originale, che abbiamo imparato a conoscere: c’è l’odore degli anni Ottanta, il periodo della vicenda, lasciato come spunto di sottofondo senza eccessiva caratterizzazione, giusto la tecnologia analogica; ci sono gli animatroni assassini, che in realtà sono “abitati” dai bambini uccisi dal killer, e cercano vendetta contro tutti i genitori assenti o distratti – un congegno archetipo del genere che, restando agli eighties, riecheggia il Chucky de La bambola assassina ma viene da più lontano, dal voodoo e dalle sorgenti del cinema. E ci sono i traumi passati, sia di Mike che di Vanessa, che si possono risolvere solo mettendosi insieme; c’è poi ovviamente la mattanza. Proprio qui si annidano i problemi del progetto. Il videogame è un punta-e-clicca dell’orrore che gioca molto sullo spavento, sull’apparizione improvvisa, sulla visione paurosa; ciò che al computer acchiappa milioni di giocatori sullo schermo si traduce nel jumpscare ripetuto senza pietà.
È l’idea costitutiva di horror che non convince e finisce per umiliare il genere, rendendolo solo un pretesto per fare altro. Il sangue nella serie Freddy non esiste, la violenza viene totalmente edulcorata, quando si arriva al punto – la strage – si entra nella sottovalutazione dello spettatore, tenendo di poco conto l’occhio che pensa di guardare un film dell’orrore. Esempio: davanti al prof di scienze odioso e scorretto, che svaluta il lavoro di Abby, anche quando si presenta con l’animatrone, l’essere afferma l’intenzione di verificare cos’ha in testa. Fa pregustare la scena, quindi, che poco dopo si risolve in un’innocua ripresa oscura – nel senso proprio di buia – tra fuori campo e dissolvenze, senza alcuna traccia ematica, direbbero i RIS. Insomma il fatto annunciato non avviene. Ecco, questo può valere per racchiudere la strategia fondante del film, che si sviluppa in un continuo vorrei ma non posso, nell’intenzione evidente di confezionare un “horror per bambini”, cioè che vada incontro a ogni tipo di pubblico. Intendiamoci: non c’è niente di male nell’horror commerciale, ma anche il genere deve mantenere la sua dignità. Che qui manca, usando il presunto orrore solo come grimaldello per scassinare il box office. Tutto legittimo, com’è legittimo stroncarlo, in attesa del terzo capitolo.
