Un film di terra, di corpi che lottano per la sopravvivenza nei boschi come nelle stanze di un orfanotrofio, di gesti e relazioni fisiche più rilevanti delle parole. Figlio di nessuno (Nicije dete) è l’opera prima – premiata alla scorsa SIC veneziana – del 39enne serbo Vuk Rsumovic e narra, in un breve periodo temporale, dal 1988 al 1992, la sofferenza di un bambino senza nome, che verrà chiamato Haris, vissuto come un selvaggio nella foresta. Non parla, si comporta come un animale, è nudo e coperto di terra. Lo trovano in quelle condizioni in una zona di montagna della Bosnia e lo portano in un orfanotrofio a Belgrado dove continua a comportarsi come se fosse ancora nel bosco. La memoria va a Il ragazzo selvaggio di François Truffaut e L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog. E, nel finale, quando la guerra nell’ex Jugoslavia infuria e Haris, musulmano, è costretto a rientrare in Bosnia, ad arruolarsi, a imparare a sparare, ritrovandosi immerso nel fango e nella neve, rotolando in essi verso una destinazione quasi sicuramente tragica, il fantasma di Mouchette di Robert Bresson riappare in tutta la sua concretezza. Tutto sembra ricominciare nel cuore di una foresta abitata da uomini e lupi, e da un dolore che cancella la speranza.