Otto anni dopo Blackhat, il sommo Michael Mann torna alla regia: Ferrari è in Concorso alla 80. Mostra di Venezia. Nel cast Adam Driver nel ruolo di Enzo Ferrari, Penélope Cruz in quello della moglie Laura Dominica Garello, Shailene Woodley per l’amante del Drake Lina Lardi, Patrick Dempsey e Jack O'Connell nelle tute dei piloti Piero Taruffi e Peter Collins, Sarah Gadon nel ruolo di Linda Christian e Gabriel Leone in quello di Fon De Portago,

il film scritto da Troy Kennedy Martin (The Italian Job) e dallo stesso Mann è basato sul libro di Brock Yates Enzo Ferrari: The Man and The Machine.

Riprese in Italia, troupe di eccellenza (fotografia di Erik Messerschmidt, costumi di Massimo Cantini Parrini, hair & make-up Aldo Signoretti, montaggio del due volte premio Oscar Pietro Scalia), non si tratta di un biopic, bensì di una tranche de vie portata su schermo: le corse automobilistiche degli Anni Cinquanta, la leggenda traballante di Ferrari e le sue vicissitudini familiari, l’all-in sulla Mille Miglia, nell’estate modenese e italiana del 1957.

L’azienda esiste da dieci anni, e non va bene: la morte del figlio Dino, scomparso nel ’56 a soli 24 anni per distrofia ha fatto il resto. Non bastasse, il matrimonio con Laura verrà irreparabilmente scosso dalla relazione di Enzo con Lina Lardi, da cui ha avuto il figlio – non riconosciuto – Piero. Insomma, che fare? Scommettere tutto, o quasi, sulla Mille Miglia, confidando che un grande risultato incrementi da 98 a 400 le Ferrari vendute all’anno e dunque salvi l’azienda, già “promessa” a Ford perché Agnelli intenda. Ma il 1957 è l’anno della tragedia di Guidizzolo, in cui perì de Portago, il copilota e nove spettatori, tra cui cinque bambini: Ferrari viene incriminato.

C’è, almeno, un elemento di pregio in Ferrari e sta nella scelta dell’autore di Heat e Collateral di non concentrarsi sul mito, e la mitizzazione, di Ferrari, bensì sull’uomo, complesso e perfino contraddittorio, tormentato e tutto fuorché buonista. Driver, che dopo House of Gucci deve averci preso – non ditelo a Favino… - gusto a incarnare illustri italiani, contribuisce assai, con una recitazione sfuggente, meglio, scostante, che scarta sempre da attese e aspettative, sconfessando immedesimazione e ammirazione per qualcosa di più interessante, persino pericoloso. Gli altri interpreti, su tutti Cruz, aiutano.

Plauso vuole anche la regia di Mann, allorché approccia le corse: poco da dire, tanto da lodare, molto da imparare, per chi fa il suo mestiere. Basterebbero le prime immagini notturne della Mille Miglia, i fari nel buio per inchinarsi. Ecco, un film interamente su ruota e in corsa (l’incidente di Guidizzolo lascia a bocca aperta) l’avremmo seguito incondizionatamente – e l’avremmo preferito a questo.

Che di pecche, invero, ne ha: la scelta dell’inglese e di attori internazionali è straniante, almeno per noi, e di certo corrobora il “rumore di fondo” in italiano desunto da crocicchi per strada e tanto meno i “commendatore” e “signora” che dispensano Driver e compagnia straniera. Spie di un folklore e un esotismo che Mann non riesce a espungere, anzi, come se anziché a Modena andassimo sulla Luna: l’inizio è proibitivo, poi ci si abitua, ma non necessariamente è un bene.

Il progetto Ferrari lo accarezzava da tempo, Enzo avrebbe dovuto essere prima Christian Bale e poi Hugh Jackman: Driver fa il suo, tenendo un sintomatico mistero, un tumulto interiore e un’assertività esteriore. Entrambe abitati dal dolore.