Non mancano le fragilità in Doppio passo, esordio nel lungometraggio del trentacinquenne Lorenzo Borghini. Allo stesso tempo non gli manca l’audacia, perché sceglie il calcio che con il cinema (italiano) ha un problema piuttosto storico. Lo sport più amato dagli italiani, tuttavia, è un chiavistello per entrare in un mondo di illusioni perdute e disincanti imprevisti, dove fare i conti con i sogni infanti, il tempo che passa, la solitudine del capitano.

Borghini corre nelle stesse fasce in cui, un anno prima della sua nascita, si trovò anche Pupi Avati, che al dietro le quinte del calcio ha dedicato uno dei suoi film più belli e amari, Ultimo minuto. Se lì c’era un veterano del settore, un dirigente sportivo magnificamente interpretato da Ugo Tognazzi, qui c’è un calciatore a fine carriera (Giulio Beranek): l’idea di raccontare il calcio attraverso il viale del tramonto è sempre affascinante, perché di quello sport così radicato nella cultura popolare ci si concentra spesso sull’effetto spettacolare (le partite), sul divismo dei suoi protagonisti (le star del pallone), sul tifo e le sue diramazioni (anche discutibili). I vincenti, insomma, a scapito dei vinti.

Doppio passo
Doppio passo

Doppio passo

E come Avati, Borghini sceglie la provincia, con le sue meschinità e le sue comodità, come orizzonte, con Claudio, capitano della Carrarese a cui, nonostante la promozione in serie B, non viene rinnovato il contratto perché troppo vecchio per giocare. Ora, pur essendogli chiaro che la fine era vicina (perciò ha aperto un ristorante per stabilizzare la famiglia), Claudio non pensava fosse così vicina: finisce, così, in un vortice di debiti, incertezze, abbandoni di moglie e amici, ritorsioni.

Doppio passo ha il coraggio (e l’intelligenza) di ricordare che anche fare il calciatore è un lavoro e che, dunque, Claudio è prima di tutto un uomo (un padre, un marito, un’icona) che ha perso il lavoro (lavoro che, va da sé, è anche status). È un film agro e spigoloso che sceglie le asperità del noir più che la facilità del crime, con una regia qua e là in deficit d’ossigeno che però sa stare accanto ai personaggi grazie a una buona direzione degli interpreti, in primis un feroce e inquietante Giordano De Plano.