È sempre un piacere incontrare un cinema che inquadra la realtà nei confini della fiaba, ancorando la dimensione tattile alla sostanza dei sogni e trascendendo le tensioni sociali e politiche nel pathos sentimentale. È in questo orizzonte che si staglia il secondo lungometraggio del franco-libanese Wissam Charaf, Dirty Difficult Dangerous, che nel 2022 ha aperto le Giornate degli Autori alla Mostra di Venezia, vincendo il Premio Label Europa Cinemas come Miglior Film Europeo.

Ambientato nella Beirut contemporanea, segnata dal traffico di esseri umani e dal rumore di fondo della guerra (anzi, delle guerre), segue l’amore tra Ahmed, rifugiato siriano, e Mehdia, immigrata etiope, vissuto in clandestinità per i contraccolpi delle discriminazioni. Lui vende metalli riciclati e ha una misteriosa malattia e lei fa la badante ma sogna datori di lavoro che non la trattino da schiava: non hanno nulla da perdere, quindi fuggono nella speranza di costruirsi una vita migliore. E come la mettiamo con il destino?

Charaf è spericolato: nel mettere in campo le tragedie di tre popoli, descrive la decadenza morale dei padroni di casa e il razzismo che investe chi scappa da tragedie indicibili, ma trova la voce nel tono, nella leggerezza che non è sinonimo di superficialità, nella tenerezza che è l’antidoto alla crudeltà, nella fuga nell’altrove che non è disinteresse per il qui e ora.

L’amore narrato è fatto di baci rubati e attimi fuggenti, furtivo e romantico nel ricordo della Novelle vague (Charaf abita in Francia e l’influenza si sente), con una coscienza politica che lo rende anche un film civile. Costruito per immagini che rivelano la volontà di denuncia (il metallo che prende possesso del corpo di Ahmed è un concetto perturbante che incrocia lo sfruttamento professionale e il rigetto fisico) e il desiderio di fuga (il potere immaginifico del cinema come uscita d’emergenza), è un film piccolo e gentile a cui manca lo slancio per farsi davvero esemplare e memorabile, però così caldo e istintivo da farsi voler bene.