Il rapporto tra Diego Armando Maradona e la città di Napoli l’aveva già raccontato il bel Maradonapoli di Alessio Maria Federici.

Il regista premio Oscar Asif Kapadia (già autore dei bellissimi Senna e Amy) si concentra allo stesso modo su quel periodo (1984-1991) ma il suo Diego Maradona (da leggere immaginando il nome in bianco e il cognome in azzurro) vuole portare a galla, appunto, il paradosso che ha portato il più grande calciatore di tutti i tempi ad essere talmente divinizzato dalla città partenopea al punto poi di finirne prigioniero.

Attraverso molti filmati inediti – per lo più relativi alla vita extracalcistica del Pibe de Oro – Kapadia procede alternando le magnifiche gesta del fuoriclasse sui terreni di gioco alle numerose interviste realizzate all’epoca, oltre ai contributi – con voice over – dello stesso Maradona e di chi, come lo storico preparatore atletico Fernando Signorini, sapeva meglio di chiunque altro chi fosse Diego e chi fosse Maradona.

Arrivato a Napoli contro ogni logica (com’era possibile che una squadra che fino a quel momento non avesse vinto nulla poteva permettersi l’acquisto di un campione simile?), superate le prime difficoltà di ambientamento in un campionato dove “non potevo esprimere al meglio la mia tecnica se dovevo preoccuparmi di correre in un certo modo”, el D1es trascinò la compagine partenopea alla vittoria del primo, storico scudetto, nel 1987 (con annessa Coppa Italia), arrivato esattamente un’estate dopo la vittoria dell’Argentina ai Mondiali di Mexico ’86.

Da fuoriclasse a dio, da calciatore a mito. Il bambino che a 15 anni portò via la famiglia dagli slum di Villa Fiorito (grazie al primo ingaggio dell’Argentinos Jr.) era sul tetto del mondo.

L’amore folle di Napoli – dove il clan dei Giuliano si era già “accaparrata” le simpatie di Diego in cambio di una non ben specificata “protezione” – ne inizia progressivamente a fagocitare ogni singolo minuto di quella che, giocoforza, non poteva più essere “vita privata”.

 

Lo scandalo Sinagra (la ragazza che, nel settembre 1986 diede alla luce quello che da subito indicò come suo figlio e che Maradona riconobbe solamente 30 anni dopo), le notti senza inibizioni in tutti i locali, l’abuso di cocaina.

Tutti sapevano tutto. Ma – sembra suggerire il documentario – tutto esplode in maniera fragorosa all’indomani dell’eliminazione dell’Italia ai Mondiali del ’90. I mondiali di casa, che salutammo in semifinale ai calci di rigore proprio per mano dell’Argentina di Maradona, ironia della sorte allo Stadio San Paolo di Napoli.

Maradona era diventato il nemico numero uno di un’intera nazione. Ma, paradosso, tenuto ancora “prigioniero” nella città che lo aveva eletto – e che ancora oggi lo celebra – come suo Dio sceso in terra.

Il 17 marzo 1991, poi, la fine è segnata. Controllo antidoping dopo Napoli-Bari, tracce di cocaina. Sospensione di 15 mesi dal calcio giocato. Controlli che in passato venivano elusi grazie al trucco della “pompetta”, sistema di protezione che questa volta non venne messo in pratica. Il resto è storia.

E, tutto sommato, il doc di Kapadia non svela poi molto di più di quello che già sapevamo.

Ma è nella ricerca di questo paradosso, nell’incapacità (o lucido menefreghismo) di chi avrebbe potuto aiutare Maradona ad uscire da un tunnel che sarebbe presto diventato imbuto strettissimo, che il regista prova ad insinuarsi, effettuando scelte non banali nel percorso che va dall’ormai storica presentazione del campione al San Paolo gremito (con la conferenza stampa dove Ferlaino pretese l’allontanamento di un giornalista che aveva chiesto a Maradona se fosse a conoscenza del fatto che ogni cosa a Napoli fosse gestita dalla camorra) all’intervista confessione che, nel 2004, ciò che rimaneva della leggenda rilasciò ad una televisione argentina.

Gonfio, quasi caricatura di ciò che era stato, la voce strozzata, le lacrime trattenute a stento, Maradona prova a rintracciare echi di quello che fu Diego.