Così com’è, in concorso con premi al Bellaria Film Festival 2025 (Miglior film della sezione Gabbiano e Premio distribuzione My Movies One) segna l’esordio al lungometraggio di Antonello Scarpelli che qui si spende nella tripla veste di regista, sceneggiatore e attore.

Film ibrido, trattenuto, di velato autobiografismo, eppure densamente emotivo, cucito com’è su silenzi, sospensioni e non-detti dei protagonisti, oscilla senza sbandare tra il doc socio-generazionale e il dramma familiare (in interno).

Al centro della cinepresa, sin da gli home movies incipitari che dettano tono e senso del film, finiscono smarrimenti, tenacie e speranze di Emilia, impiegata comunale nel cosentino, chiamata a corazzare una famiglia di maschi infragiliti e vagolanti: il marito aggredito dall’Alzheimer, un figlio Antonello in fuga spaziale (emigrato in Germania) quindi emotiva, l’altro con famiglia, ma senza lavoro.

Focale corta e focale lunga, primo piano e carrelli lunghissimi, Scarpelli contiene il qui e l’altrove, il noto e l’ignoto, la paura della morte e quella della vita, l’insopportabile prossimità del dramma privato con la rassicurante distanza dello spazio straniero (e straniante). Germania come terra di emigrazione sì, ma anche rifugio d’incomunicabilità, di sfaldamento dei rapporti familiari, di erosione dell’autenticità, di rarefazione della verità e delle possibilità. 

Tra la verde, frondosa Calabria di nascita (cono di sguardo anche della precedente Tarda estate) e la Germania antropizzata e dispersiva d’elezione e (forse) perdizione, Scarpelli compone in economia compositiva e scarnificazione espressiva, il viaggio odisseico dei genitori alla ricerca del figlio “latitante” (“i semi non mi sono mai piaciuti” sussurra, sintomaticamente, a madre, padre e fidanzata). Nonostante la piatta fumosità del titolo, la ricorsività della fotografia e dialoghi che, seppur scarnificati, imbarcano (di rado) didascalismi, Così com’è sa lievitare alla distanza e far emergere senza pregiudizio il disagio emotivo e lavorativo di un trentenne nomade, che svicola dall’imbarazzo della verità famigliare, tenuta a distanza, rinnegata e riemersa poi al telefono come unico sostitutivo comunicativo (il non detto a tavola tra madre e figlio, emerge a colpi di vocali WhatsApp). 

Regia essenziale e statica, lavora su disagio, inquietudini e dolori privati, cesellando, poi, gli spazi con un certo compiacimento formale, non innovativo, ma sicuramente distintivo, distinguendo l’uterino, accogliente luogo di nascita, dalla plumbea, inospitale Germania (fotografia dualistica di Stefania Bona). Che è insieme uno stereotipo e una verità.