Secondo le caratteristiche del mondo animale, la tartaruga, rettile protetto da un infrangibile carapace, dopo aver subito un trauma sceglie volontariamente di isolarsi nel proprio guscio per affrontare al meglio il turbamento patito. Attuando questa specie di introversione, ella può ritemprarsi. E come le tartarughe, impugnando il senso letterale ed evocativo del titolo del film, Lisa, madre e moglie in una famiglia borghese romana, adotta questo meccanismo di difesa per elaborare la decisione del marito di andarsene e lasciarla.

Nell’armadio, ormai libero dagli effetti personali dell’uomo, Lisa si rifugia e si nasconde dall'esterno. Fuori dall’apparentemente angusto spazio del mobile, ad un palmo di mano, emotivamente a migliaia di chilometri di distanza, la giovane figlia Sveva e il piccolo secondogenito Paolo, cercano di far fronte alla surreale situazione. Nel tepore circoscritto della casa ad andare in scena sono conflitti familiari e tentativi di rinascita di un aggregato domestico tipico dell’agiatezza della borghesia moderna.

Le maschere sono fisse e riconoscibili: il marito/padre, medico oberato di lavoro, colpito da ripensamenti camuffati da depressione o verosimilmente portatore del pruriginoso piagnucolare di una persona insoddisfatta; il figlio piccolo, coccolato, inconsapevole e più acerbo della sua età e l'adolescente in perenne lotta con la figura materna emanante oppressiva premura. A canalizzare i pregi e i difetti di ogni membro, Lisa, la moglie accomodante, monocorde e monocromo come gli abiti indossati, e la madre zelante nell’occuparsi con eccessiva cura dei figli, non contemplando minimamente la dannosità di un’educazione apprensiva. Sarà l’abbandono e il conseguente stato emotivo a metterla in discussione e a spingerla a scegliere di vivere all’interno di quello strano microcosmo.

Come le tartarughe
Come le tartarughe

Come le tartarughe

Seppure affascinante e fiabesca, emulazione della ricca tradizione fantasy del guardaroba come “stargate”, la risoluzione acquisisce in realtà valore non propriamente positivo. La scelta bizzarra aiuterà sì i figli a guardarla con occhi più indulgenti, ma solo dopo averli costretti a reagire autonomamente alla nuova quotidianità priva delle figure genitoriali. E soprattutto, più che luogo di riflessione, diverrà nascondiglio in cui non affronterà affatto un vero percorso di reintegrazione psicologica trasformandolo, invece, in tana capricciosa.

Ad essere tralasciata è quindi l’evoluzione narrativa della protagonista e con lei tutti i rapporti poco approfonditi. Paradossalmente ad essere davvero a fuoco è l’armadio stesso, il cigolio delle ante, la luce fioca smorzata e l’aspettativa che questo ci avrebbe potuto traghettare in un altro universo. Al contrario ciò non avviene e la mancanza della spinta onirica, solo accennata, ha temperato la vicenda rendendola impacciata e troppo lineare. Anche se l’idea di base è originale e con potenziale, la composizione generale rimane scricchiolante e poco omogenea. Ma Come le tartarughe è l’opera prima di Monica Dugo e in quanto tale, solo il primo incoraggiante approccio dietro la macchina da presa.