Si possono mettere in luce i difetti, lamentare il trattamento di alcuni personaggi, puntare il dito contro la coerenza dell'impianto e discutere persino dei tagli drammaturgici operati sul romanzo di Ammaniti. Bisogna però riconoscere a Gabriele Salvatores la capacità di reinventarsi ogni volta, spiazzare la critica e sfidare le attese del pubblico. Che fosse autore impavido, lo aveva già sbandierato ai quattro venti con Io non ho paura, ed è a quel film - prima collaborazione tra il regista napoletano e lo scrittore romano - che il nuovo lavoro rimanda. In mezzo le sperimentazioni di Quo vadis, baby?, collaudo per le atmosfere sinistre e il registro cupo di Come Dio comanda. Siamo in Friuli, nella provincia amorfa del lavoro, del perbenismo, del grado zero dei legami sociali. Ai suoi margini vegeta una periferia fatta di irrazionalità, scoppi d'ira e indigenza. Vi appartengono Rino Zena (Filippo Timi) e il figlio dodicenne Cristiano (l'esordiente, bravo, Alvaro Caleca), nucleo di una famiglia impresentabile, cresciuta a pane (poco), lavoro (niente) e diffidenza (troppa). Rino è un nostalgico del nazionalsocialismo, disoccupato/alcolizzato, che nella (dis)educazione del figlio ha riposto i suoi ultimi sogni di rivalsa. Cristiano è un ragazzo introverso, di temperamento mite, succube del padre padrone. Il loro è un "rapporto a due" intervallato dalle visite di un assistente sociale (Fabio De Luigi) che minaccia di rompere l'amorevole binomio; dalle bravate di Quattro Formaggi (Elio Germano), uno sciroccato che parla con Dio, costruisce improbabili presepi e si masturba davanti a un televisore; e dalle attenzioni di Fabiana (Angelica Leo), figlia della borghesia e della generazione Ipod. Sarà proprio l'ossessione di Quattro Formaggi per la ragazza a scatenare la tragedia... Tornano i padri e figli del passato, ma Salvatores non è più (solo) interessato all'ottica dei piccoli nè al coté sociale e politico. Al centro di Come Dio comanda c'è semmai l'ambiguità dei sentimenti e delle pulsioni umane, messe in scena con una radicalità e una pietas inedite. Lontano dalle demonizzazioni e dall'indifferenza della cronaca, il regista premio Oscar costruisce una favola dark (con tanto di cappuccetto rosso e lupo nella foresta) immersa nella natura arcana di una terra di nessuno, dove non ci sono né orchi né fate, ma creature ferite, cuori che sanguinano, e compassione per tutti. La sceneggiatura non è sempre compatta, le ingenuità e la carne al fuoco abbondano - si veda la sequenza del funerale o quella in ospedale con Quattro Formaggi -, Germano fà troppe smorfie (ma il suo era il ruolo più a rischio), e la hit di Robbie Williams (She's The One) finirà per rintronare l'ascoltatore più esigente (al contrario dell'empatico score dei Mokadelic). Si può storcere il naso quindi e liquidarlo con una battuta. Oppure sostenerlo, sperando che fruttino (al cinema italiano) i suoi semi migliori: l'eloquenza dei corpi, l'andirivieni sospeso, il gusto cinefilo (Van Sant, Cronenberg), il primato della forma. Ossia il nocciolo della narrazione moderna. Pecche comprese.