Brett Morgen e la HBO, almeno nelle intenzioni, hanno realizzato il documentario definitivo su Kurt Cobain, leader dei Nirvana di cui l’anno scorso si è celebrato il 20° anniversario del suicidio. Ci sono riusciti ottenendo da Courtney Love e dalla figlia Frances Bean (anche produttrice esecutiva) il permesso per utilizzare l’archivio privato del cantante: una messe incredibile di video, quaderni, disegni, appunti, registrazioni, pubbliche e private, personali e artistiche.

Ne è uscito fuori Cobain (Montage of Heck), presentato in anteprima al Bif&st di Bari e in sala il 28 e il 29 aprile, documentario che mette insieme interviste ad amici e familiari, animazioni e ricostruzioni disegnate, materiali di varissima natura per cercare di restituire il ritratto di un uomo, di un genio, di un essere fragile che ha reso arte i propri limiti pagandone poi pegno, partendo dalla nascita e dal rapporto tormentato con la famiglia fino ad arrivare al successo di Nevermind e al crollo psichico dopo In Utero.

Un lavoro encomiabile dal punto di vista realizzativo e artistico, la titanica impresa di dare forme e vite a uno zibaldone immenso di un artista iperattivo, in cui l’abrasiva musica dei Nirvana è solo una parte del discorso, anche se quella più diretta e comunicativa: i filmini privati dall’infanzia agli ultimi giorni che mostravano la voglia di documentarsi e donarsi in modo nudo allo sguardo (toccanti le riprese in cui cerca di tagliare i capelli alla piccola Frances strafatto di eroina), le registrazioni di audio diario che diventano cupi cartoni animati, gli schizzi a margine degli appunti che prendono vita mentre le chitarre di demo e sale prove devastano il concetto di rock ‘n’ roll. E le parole di chi gli ha voluto bene, ora mettendosi in mostra (Love) ora ritraendosi (la timidezza di Novoselic e l’assenza di Dave Grohl). Un’opera di grande impatto sonoro, visivo ed emotivo.

Il punto debole è che dal lavoro di Morgen – in vero troppo lungo e quindi un po’ ripetitivo – non emerge nessuna visione nuova, diversa o sconvolgente del fenomeno e dell’uomo Cobain, né una visione dell’artista che superi lo schema del genio maledetto (il film si apre con la sorella di Cobain che afferma “Meglio non essere un genio”). Nulla che Gus Van Sant non avesse già sondato in Last Days. Però è un prodotto di tutto rispetto, probabilmente pensato per i fan, soprattutto quelli che nel ’94 vissero in prima persona il crollo del dio grunge.