“Più scura la notte, più luminose le stelle”.

Si chiude citando Dostoevskij il nuovo, potentissimo documentario realizzato da Alex Gibney, regista premio Oscar (per Taxi to the Dark Side) che questa volta mette al centro della sua indagine Mikhail Khodorkovsky, imprenditore in esilio, che nel 2003 era considerato l'uomo più ricco di Russia: arrestato per frode ed evasione fiscale, ha scontato 10 anni di detenzione in una prigione siberiana, al confine con il deserto mongolo. Scarcerato grazie ad un’amnistia nel 2013, lasciò la Russia alla volta della Germania. Ora vive a Londra, da dove continua a combattere il potere ormai ventennale di Putin.

Citizen K è quanto di meglio si possa chiedere attualmente per provare a comprendere la Russia di oggi. Che cosa accadde a livello politico-economico all’indomani del crollo sovietico? Com’è stato possibile che dopo il decennio “liberale” della nuova Russia guidata da Boris Eltsin si sia instaurata (dal ’99 ad oggi) la democrazia dittatoriale di Vladimir Putin? Quale ruolo hanno avuto in tutto questo i cosiddetti oligarchi russi? E per quale motivo, uno dopo l’altro, questi ultimi sono diventati il bersaglio numero uno dello stesso Putin?

 

Attraverso oltre 20 ore di interviste realizzate con Khodorkovsky (e con molti altri protagonisti di questa “storia”, dall’allora socio più stretto Leonid Nevzlin a Igor Malashenko, trovato morto lo scorso febbraio in Spagna, già cofondatore e presidente di NTV, canale televisivo indipendente che contribuì in maniera determinante a sostenere la campagna elettorale di Boris Eltsin per la seconda vittoria presidenziale nel 1996) e un incredibile lavoro di montaggio capace di alternare con ritmo da spy-thriller materiale di repertorio e immagini inedite, Gibney torna alle origini del capitalismo gangster che caratterizzò l’immediato scenario della federazione russa dopo il collasso sovietico.

Scenario che già Emmanuel Carrère sintetizzò alla perfezione in un passaggio di Limonov (Adelphi, 2013):

“Il primo settembre 1992 erano stati spediti per posta a ogni russo con più di un anno di età buoni per il valore di diecimila rubli, il che corrispondeva alla quota di ogni cittadino nell’economia del paese. Dopo settant’anni in cui in teoria nessuno aveva avuto il diritto di lavorare per sé ma soltanto per la collettività, l’idea era quella di stimolare l’interesse personale e favorire la nascita di imprese e proprietà private, insomma del mercato. Purtroppo però, a causa dell’inflazione, appena recapitati i buoni non valevano più niente. I beneficiari hanno scoperto che ci si poteva comprare tutt’al più una bottiglia di vodka. Così li hanno rivenduti in massa ad alcuni furbetti, che in cambio hanno offerto loro l’equivalente, diciamo, di una bottiglia e mezzo. Questi furbetti, che nel giro di qualche mese sono diventati i re del petrolio, si chiamavano Boris Berezovsky, Vladimir Gusinsky, Mikhail Khodorkovsky […] Erano giovani, intelligenti, pieni di energia, non disonesti per vocazione – soltanto, erano cresciuti in un mondo in cui era vietato fare affari, attività per la quale avevano un vero talento, e da un giorno all’altro si erano sentiti dire: ‘Fatevi sotto’. Senza regole del gioco, senza leggi, senza sistema bancario e fiscale. […] era il Far West”.

 

Un paese e una popolazione al collasso, a beneficio di un ristrettissimo gruppo di miliardari. Che favorirono in ogni modo possibile la rielezione di un già malato Eltsin piuttosto che ripiombare nell’incubo comunista e, per farlo, adottarono lo stratagemma dei prestiti allo stato in cambio di azioni: risultato, le aziende statali finirono nelle loro mani a prezzi ridicoli. Tra queste, la petrolifera Yukos, che si accaparrò Khodorkovsky.

Ma quando, nel ’99, Eltsin si dimette e al Cremlino arriva Putin (dal nulla? Non proprio…) la situazione cambiò drasticamente. Il nuovo presidente rimette in discussione i grandi privilegi concessi all'entourage di burocrati, politici e oligarchi cresciuti e prosperati sotto l'ala protettrice di Eltsin, ora visti da Putin come ostacolo alle sue mire autoritarie.

Inizia così la sceneggiata dei processi farsa, in molti (come Berezovsky, anni dopo trovato morto a Londra) fuggono dalla Russia. Tutti o quasi, tranne Khodorkovsky: “Non credo la mia vita abbia più valore della mia dignità”.

Ed è da quel momento (con la detenzione durata dieci anni) che inizia la trasformazione di un uomo, da spietato oligarca a dissidente politico, fondatore successivamente di Open Russia (organizzazione a favore della democrazia e dei diritti umani in Russia) e ancora oggi impossibilitato a tornare in patria (successivamente è stato accusato di essere il mandante dell’omicidio di Vladimir Petukhov, sindaco di Nefteyugansk, città siberiana sede del quartier generale del colosso petrolifero, avvenuto nel ’98).

Non ritratto apologetico di un santo (è stato tutt'altro), ma indagine sulla storia di un uomo e sulla sua lotta con Putin per cercare di comprendere come funziona la macchina del potere in Russia: un documentario di un’urgenza feroce, dalla costruzione non semplice sebbene irreprensibile, visione indispensabile per tentare di addentrarsi in un contesto chiuso che, mai come negli ultimi anni, sta influenzando in maniera decisiva lo scenario politico globale.