Ci sarebbe da chiedersi come mai alcune delle serie prodotte in queste anni da Sky siano così interessate al tema del sacro. A maggior ragione considerando che, fino a qualche lustro fa, a dare spazio a storie bibliche, vite di santi o avventure con religiosi (Un prete tra noi, Don Matteo, Che Dio ci aiuti) ci pensava soltanto la televisione generalista.

E se la fiction Rai ha ormai cambiato passo e, pur senza mai abbandonare quel tipo di narrazioni, ha rinnovato la sua linea editoriale sia sul piano estetico (il coinvolgimento di registi di provenienza cinematografica, scelte più inclusive nel parco attoriale e nello spettro tematico, una maggiore ambizione internazionale) che su quello strettamente legato al formato (progressiva riduzione della miniserie in due puntate tipica dei biopic Rai e più in generale dell’istituto delle agiografie), incuriosisce come l’universo produttivo che fino a pochi anni fa rappresentava il controcanto della serialità tradizionale sia diventato lo spazio in cui affrontare quello che era uno dei piatti forti della generalista.

Potremmo parlare di un vero e proprio ripensamento, che, misurandosi con il grande tema del rapporto tra umano e divino, si declina attraverso l’esercizio del dubbio, la riflessione sui simboli, la crisi dei simulacri, collocandosi tanto all’altezza del rinnovamento del genere quanto su quello della visione d’autore.

Edoardo Pesce è Christian - ph. credit Matteo Graia

E infatti, sin dalle sue prime espressioni, le serie di Sky hanno sempre rivendicato un loro diritto di cittadinanza cinematografica, assecondando quello snobismo tipicamente italiano nei confronti della tv ritenuta banalizzante e perfino mortificante. Inserendosi, poi, nel novero della golden age globale, Sky ha stabilito uno standard che ha fatto scuola, rendendo riconoscibile ogni suo prodotto anche presso il pubblico internazionale.

A partire dall’ormai lontana In nome del male (2009), miniserie thriller incentrata sul satanismo, il broadcast ha offerto un corpus di lavori che dialogano con la spiritualità e le sue zone d’ombra: il dittico vaticano di Paolo Sorrentino composto da The Young Pope (2016) e The New Pope (2019), lavoro teorico e pop sull’immagine di un potere temporale che è anche divino; la doppietta di Niccolò Ammaniti, la rapsodica Il miracolo (2018) e la cristologica Anna (2020). Un laboratorio proiettato anche fuori dai confini nazionali che però esalta caratteristiche locali (la Chiesa come Stato nello Stato ma anche presenza capillare nelle vite degli italiani), sfrutta elementi del folklore, richiama suggestioni dei nostri autori più riconosciuti e riconoscibili (Fellini e fellinismi in primis).

Il preambolo, forse noioso, è – si spera – utile per capire da dove arriva Christian, che si colloca nel filone in posizione eccentrica, ergendosene quasi a intrigante sintesi e lungimirante parodia per come sa spingere il discorso su un piano più ardito senza eludere un’altra sintonia: quella con i film della tendenza “periferia romana” e con il suo frutto più singolare, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti.

Ideata da Roberto Saku Cinardi (famoso soprattutto come autore di videoclip per, tra gli altri, i Velvet, i Lacuna Coli, i Verdena) e diretta da Stefano Lodovichi (regista sempre interessato alle mille sfumature del thriller, dalle serie Il cacciatore e Il processo ai film In fondo al bosco e La stanza,), Christian riprende, sviluppa e rilegge Stigmate, acclamata graphic novel datata 1999, scritta da Claudio Piersanti e disegnata da Lorenzo Mattotti. E già trasposta dallo stesso Cinardi in un corto del 2015, interpretato da Mainetti: se il testo è un punto di partenza, il corto è l’anticamente di una serie in cui quello di Cinardi e Lodovichi si afferma subito come un punto di vista forte, che tiene conto dell’origine ma cerca una strada personale, attingendo a un immaginario più composito in cui convivono la spiritualità e il supernatural, la pietà e l’onirico, la gravitas e il pulp, l’iperrealismo e il dolore.

Scagnozzo di un boss della periferia romana, Christian usa le mani per menare, finché non gli compaiono delle stimmate, le ferite dei santi, con le quali inizia a dispensare miracoli. L’antieroe titolare non è solo quel “supereroe all’amatriciana” evocato dagli stessi autori, ma anche – o soprattutto – un personaggio che si porta dentro e dietro i cliché del filone “periferia” e si pone come epicentro bizzarro di quella serialità “spirituale” targata Sky prima citata.

Giordano De Plano e Milena Mancini
Giordano De Plano e Milena Mancini
Giordano De Plano e Milena Mancini
Giordano De Plano e Milena Mancini

Grazie al casting di Edoardo Pesce, capiamo che Christian è il figlio di quei posti dove, direbbe Renato Zero, “vivere è un terno alla lotteria”: dimenticato dal centro, è un povero cristo rimosso dalla narrazione collettiva, educatosi inevitabilmente alla violenza per emanciparsi dal ruolo di vittima, tossicodipendente per consuetudine, utile soprattutto per spicciare lavori sporchi.

La serie investe in credibilità anzitutto attraverso la fisicità di Pesce, che ricordiamo bestiale in Dogman ma anche presenza caratterizzante dei periferia-movie Cuori puri e Fortunata, con la sua faccia vissuta e gli occhi annacquati da rabbia e disillusione che indicano una strada sospesa tra tragedia e commedia: da una parte, costati che sgorgano sangue, morti destinati alla resurrezione, le verità nascoste di suore troppo reticenti, omicidi efferati nei tinelli domestici, le derive alla Romeo e Giulietta; dall’altra, l’incipit con le ciambelline “che nessuno mangia più”, i momenti surreali con i membri della banda tra serpenti poco furbi e sesso occasionale, il tenero “Sono cambiati tre papi e ci sono 17 album di Renato Zero da recuperare” detto da Antonio Bannò alla mamma Milena Mancini dopo il suo risveglio dal coma (un plauso generale agli ottimi comprimari: tra gli altri sono da citare Gabriel Montesi, Francesco Colella, Giulio Beranek).

“Somigliava a Gesù bambino, quindi l’ho chiamato Christian” dice mamma Italia (Lina Sastri, che in virtù della sua lunga esperienza teatrale è capace di misurare il peso delle parole di questa storia con il metro del disincanto), ma non abbiamo bisogno della rivelazione per intuire la vera natura di Christian. In lui ritroviamo il conflitto di un corpo terreno a disagio con il dono divino già affrontato da Sorrentino, lo scetticismo nei confronti di un prodigio e il bisogno di eroi misteriosi con poteri incomprensibili a noi umani, che sono temi scandagliati da Ammaniti. Christian segue queste tracce all’altezza di Jeeg Robot: la sua parabola, che trascende e mette in crisi la conoscenza umana nonché gli interessi minimi dei piccoli cesari, fa i conti e trova la sua identità proprio a partire da un genius loci fatto di fatalismo e pigrizia, malinconia ed eccitazione, desiderio di grandi imprese e scetticismo perenne.

La forza di Christian risiede, infatti, nella sua capacità di tradurre il lessico di base dei cinecomic in una terra quasi vergine, che certo non può contare su una vera tradizione nazionale, introducendo il fantastico in una dimensione realista nei fatti ma alternativa nello stile. Perché prima di essere la storia di un uomo che scopre improvvisamente di avere dei poteri, è il racconto di un derelitto ai margini di una società che si ritrova a essere, per una ragione o per l’altra, una speranza o una minaccia per la comunità.

La sua esistenza è subalterna ma speculare a quella del boss con cui è cresciuto insieme (Giordano De Plano, che si conferma caratterista di razza) e trova completamento grazie all’incontro con Rachele. Interpretata da Silvia D'Amico (per cui vale lo stesso discorso di Pesce: difficile non riconoscere nella sua presenza scenica l’aderenza a un preciso humus), è una tossica che sin dal nome – in ebraico significa “pecorella” – denuncia smarrimento e disorientamento: in Christian trova una guida e un amico, un punto di riferimento e la controparte con cui dare vita alla componente buddy movie di tutta la serie. Lui la salva, lei ne capisce la potenza taumaturgica.

Silvia D'Amico

Christian è un santo bevitore con l’eroina al posto dell’alcol e le stimmate in luogo dei soldi, un estraneo al mondo che incarna l’impenetrabilità del mistero nell’epoca in cui tutti crediamo di avere padronanza delle altrui esperienze. È in questo senso decisivo il ruolo del messo pontificio, mandato dal Vaticano per svelare l’inganno delle stimmate sulle mani di un criminale, miracolato da bambino e ormai lontano dalla fede (ed è significativo che a interpretarlo sia Claudio Santamaria, cioè Jeeg Robot). D’altronde “le cose non so’ mai come sembrano”, ci ricorda il protagonista.

Al netto della sua difficoltà nel mantenere costantemente l’equilibrio tra dramma e umorismo (“Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” è una frase ad alto rischio), Christian è un altro interessante risultato dell’officina seriale di Sky, ma anche la prova di maturità di Lodovichi, che da regista e produttore creativo riesce a dare un’identità alle sei puntate, anche quando si colloca con una certa audacia nei pressi di Harry Potter (il flashback della nascita di Christian all’ospedale Ancilla Domini). Contribuiscono la fotografia di Benjamin Maier tra tonalità acidi e luci (sovran)naturali, le scenografie del mainettiano Massimiliano Sturiale tra il cemento della periferia meccanica, l’eleganza pop degli interni dei ricchi e impreviste suggestioni escheriane, le musiche di Giorgio Gampà, il lavoro sul suono coordinato da Iacopo Pineschi.