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C'era una volta mia madre
C’era una volta mia madre è una bella favola tratta da una storia vera. Diretta dal regista canadese Ken Scott, coprodotta da Francia (Gaumont) e Canada e ispirata al romanzo autobiografico di Roland Perez, Ma mère, Dieu et Sylvie Vartan scritto e pubblicato nel 2021, ci racconta la vita dello stesso Roland (Jonathan Cohen), nato nel 1963 con un “piede equino”, o meglio con un piede torto che gli impedisce di stare in piedi. Sarà sua madre, Esther (interpretata dalla brava Leila Bekhti), a riuscire a farlo camminare come tutti gli altri e a fargli avere una vita meravigliosa: attore prima, avvocato poi, persino giornalista improvvisato, con tanto di matrimonio felice e diversi figli.
Tutto comincia perché la medicina tarda a dare rimedio e contro il parere di tutti, in primis dell’assistente sociale (Jeanne Balibar) sua madre si rivolge a un terapeuta supremo invocando un miracolo e si affida a guaritrici (come Madame Vergepoche interpretata da Anne Le Ny) e nel frattempo si rifiuta di mandarlo a scuola senza che cammini e con le stampelle. Roland imparerà a leggere chiuso in casa grazie alle canzoni della stella della musica pop francese anni sessanta Sylvie Vartan (presente nel film nel ruolo di sé stessa), ma soprattutto, senza tutori, riuscirà miracolosamente a camminare da solo sulle sue gambe. Con un’unica raccomandazione (fino alla tenera età di 27 anni) da parte di sua madre: “Non parlare con nessuno nel metrò”.
Tra cultura ebraica sefardita e marocchina, nelle case popolari del 13esimo arrondissement di Parigi, tra preghiere e visite mediche, tra dramma e commedia, si dipana la trama di questo racconto intimo e di formazione. Complesso edipico a parte, il vero tema non è tanto quell’handicap fisico, raccontato con leggerezza, ma senza superficialità nella prima parte del film, quanto quell’amore incondizionato di una madre piuttosto invadente e quanto esso stesso – significativamente racchiuso nella parola araba “michkpara”, traduzione: ti do la mia vita- talvolta possa rivelarsi un boomerang.
Ecco proprio la ricerca di identità, con tanto di citazione proustiana sull’amore materno, è al centro della seconda parte (purtroppo meno ben sviluppata della prima) che si rivela una riflessione di emanciparsi dopo essere stati così tanto coccolati e protetti, nonché sulla difficoltà poi di fare fronte alla realtà. In sintesi questa piccola storia, corredata dalla sua bella colonna sonora (ovviamente Sylvie Vartan fa da padrona) riesce a farci credere nei miracoli. Che talvolta sono semplicemente le madri, come suggerisce la battuta finale del film: “uno scrittore inglese ha giustamente scritto che Dio, poiché non poteva essere ovunque, ha dovuto inventare le madri”.
Nota a margine: più difficile piuttosto credere, vista la ben poca differenza anagrafica tra i due, che Jonathan Cohen sia il figlio di Leila Bekhti sebbene la truccatrice sia stata comunque fenomenale nel rendere più anziana l’attrice francese di origini algerine, prossimamente protagonista del film Cambiare l’acqua ai fiori.
