Negli anni Sessanta, nel piccolo schermo in bianco e nero, il Quartetto Cetra si dilettava nella Biblioteca di Studio Uno con le parodie di grandi classici della letteratura usando i motivetti delle canzoni più popolari dell’epoca. Oggi, nel piccolo schermo della visione in streaming (su Amazon Prime, ma la destinazione originale era la sala), James Corden ha avuto l’idea di adattare-rivisitare Cenerentola, trovando sponda finanziaria nella Columbia.

Non si tratta di rimpiangere il glorioso gruppo vocale italiano, quanto piuttosto di osservare come un’operazione poco originale ma sulla carta molto forte riesca a ingolfarsi risultando infine stucchevole e stonata. Non che si intravedesse in nuce il segno di una qualche genialità, ma l’approccio eccentrico e dissacrante prometteva qualche scintilla in più, a maggior ragione a pochi anni dal sontuoso auto-remake live action della Disney.

I soldi ci sono, e si vedono, con la regia di Kay Cannon che mette da parte il romanticismo più ovvio e flirta con la commedia, appoggiata da un casting pieno di interpreti divertiti più che divertenti e che è l’apoteosi dell’inclusività, Fata Madrina di Billy Porter in testa. Ma la nuova versione è soprattutto un aggiornamento della fiaba a temi contemporanei, con la protagonista che vorrebbe diventare una stilista nonostante i limiti e le avversità della famiglia (matrigna cattiva e sorellastre in età da marito) e di una società che non crede nella realizzazione professionale delle donne.

E il principe azzurro? Non vuole sposarsi, non è interessato a un matrimonio combinato per accrescere il potere del regno, preferisce fare il vitellone con gli amici e sa che la sorella sarebbe più adatta al trono malgrado la linea dinastica maschilista. Il resto è storia, con il re organizza un ballo per trovare moglie al figlio e ciò che ne consegue. Ma con variazioni, perché l’appagamento delle ambizioni personali non può essere solo sentimentale.

Tutto molto curioso, peccato che Cenerentola (l'eroina titolare è la frizzante Camila Cabello) manchi di smalto e tenuta, coerenza e forza. Resta l’esteriorità di una fantasia camp che sogna Broadway senza averne il respiro (il jukebok alla lunga rivela la sua futilità, benché Material Girl rifatto dalla matrigna Idina Menzel sia piuttosto divertente) e che non trova davvero il coraggio di incaricarsi di una credibile critica al patriarcato, preferendo la superficie di un immaginario inespresso che è solo un repertorio di immagini da condividere e rilanciare.