Era il tramonto del 1958 quando la Divina calcò per la prima volta l’Opéra di Parigi. Il tempio della musica lirica spalancava le porte alla sua diva irripetibile. "Un evento storico, il più importante del dopoguerra!” si affretta a chiosare lo sdilinquito telecronista francese. Fu un concerto di debutto attesissimo che, all’epoca, rimbalzò in diretta di televisione in televisione per tutta Europa.

Sipario aperto, abito rosso, diamanti e orecchini d’oro, appare lei Maria Callas, iridescente ma contegnosa, liliale eppure tormentata. In venerato silenzio il pubblico, accorso in pompa magna (pure Chaplin tra gli astanti)  alle sue principesche performances: dalla Tosca, si passa Il trovatore. Poi ecco Il Barbiere di Siviglia come preludio al secondo, truculento atto di Tosca.

Più cerimonia che concerto, più liturgia che arte, a cent’anni dalla nascita della Casta Diva, non pago dell’intimista Maria by Callas, Tom Wolf continua a cesellare il suo mosaico cinematografico dedicato alla Tigre. Nel doc è la volta di quella notte in cui il mezzosoprano rilucidò, eterno le più celebri arie italiane d’Ottocento.

La regia di Wolf confeziona un documentario, come accennato, ammantato di un’aurea epica, regale, devozionale e barocco in simbiosi con il temperamento della protagonista, in venerazione stuporosa, quasi bambinesca del suo sterminato talento canoro. Restaurato in 4K HD, ricolorato da Composite Film, risonorizzato da Miraval Studios, il concerto, funziona a latere per giovanissimi e digiuni di opera, anche come iniziazione, sempre misterica, a liturgie, sensi e meraviglie dell’arte lirica.

La ristrutturazione tecnica, però, serve soprattutto a gettare altra luce sull’attrice e cantante lirica, com’è naturale, cuore e voce di ogni scena, adombrando il contesto: titoli di testa a parte, pubblico, regista e teatro rispuntano solo nel finale. Si odono, si indovinano, non si vedono.

Perché Wolf non sforbicia il flusso delle bobine, si rende invisibile con una regia di servizio, in ginocchio davanti al soprano, spettatore invisibile tra i tanti illustrissimi della platea. Suadente e infragilita, ruggente e indifesa, accompagnata dal coro, dagli altri tenori o da sola, la Diva ripercorre i libretti dominando, per presenza scenica gli altri comprimari maschili, padroneggiando registro lirico e drammatico, umoristico e melò. Smorfie, moine, svenevolezze, corrucciamenti, sorrisi, salti di ritmo e stati di quiete, il doc insegue e cattura ogni sussulto emotivo della protagonista, eppure il flusso narrativo e canoro delle interpretazioni non si sfilaccia mai.

“Vissi d’arte, vissi d’amore, non ho mai fatto del male ad una creatura vivente” sussurra Maria che è Floria Tosca, angustiata da un sentimento tragico per il pittore Mario Caravadossi. Insomma, dietro il personaggio alligna la biografia, i tumulti sentimentali si fanno strada in quel limbo dove i confini tra teatralità e privatezza, tra messinscena e intimità dei sentimenti si dissolvono.

Doc come testamento di gesta e di vita irripetibile, dunque, ma anche come permanenza intermediale del fatto artistico: nell’era della riproducibilità tecnica, il cinema riesuma ancora una volta per eternare quell’interpretazione che l’opera consumò e disperse in una sola notte (d’amore).