In fondo la questione è tutta lì: “Non devi sforzarti di immaginare che quella cosa ci sia. Devi piuttosto smettere di pensare che non ci sia”.

 

Lee Chang-dong ce lo dice subito, all’inizio del film. O meglio, lo fa dire ad Haemi, poco dopo aver ritrovato Jongsu, vecchio amico d’infanzia incontrato per caso. “Ma come, non mi riconosci?”, gli chiede. “E’ perché ho fatto la chirurgia plastica”…

È un film, Burning, che ti costringe a rivalutare, a posteriori, molte situazioni, alcuni dialoghi, determinate atmosfere. Soprattutto, è questa la chiave, a riconsiderare le varie presenze e le moltissime assenze che incidono sull’andamento del racconto.

Burning
Burning
Burning

Racconto, appunto. Ufficialmente, il film di Lee Chang-dong – che per quanto ci riguarda ha raggiunto il punto più alto della sua già notevole filmografia (su tutti, Oasis e Poetry), prende spunto da Barn Burning, racconto breve firmato da Haruki Murakami. Che, guarda caso, è omonimo di un altro racconto breve, datato 1939, e firmato da William Faulkner.

Il quale, fatalità, è l’autore preferito del protagonista del film, Jongsu appunto (Yoo Ah-in), aspirante scrittore in cerca di una storia, tra fantasmi del proprio passato e ossessioni di un presente che non è in grado di decifrare.

In maniera molto superficiale, nel senso letterale – non spregiativo – del termine, il film si sviluppa in questo modo: Jongsu, che per tirare avanti fa lavoretti part-time, a Seoul incontra casualmente Haemi (Jun Jong-Seo), ragazza che non vedeva dai tempi d’infanzia, all’epoca sua vicina di casa, in un villaggio rurale dove è possibile sentire la voce dagli altoparlanti della propaganda nordcoreana. Di lì a poco lei parte per l’Africa e chiede a Jongsu se può occuparsi del suo gatto mentre è via. Al suo ritorno, Haemi è in compagnia di Ben (Steven Yeun, volto noto per gli appassionati di serie tv grazie a Walking Dead), uomo misterioso e facoltoso, che un giorno rivela a Jongsu di avere un hobby segreto: dare fuoco alle serre abbandonate, almeno una volta ogni due mesi. E da quel momento, Haemi scompare…

Barn Burning: fienile in fiamme.

Apparentemente thriller sospeso dalle atmosfere rarefatte, in cui la fotografia di Hong Kyung-pyo e lo score musicale di Mowg contribuiscono a stabilirne le sfumature visive, emotive e di ritmo, il film di Lee Chang-dong è in realtà uno straordinario e doloroso sguardo sul “mistero della vita”. E, di conseguenza, sul mistero di come sia possibile raccontarla.

Lo dicevamo prima: è un film che ti costringe a ripensare i vari momenti, i perché di alcune situazioni (Jongsu che va a dare da mangiare a quel gatto “immaginario” nella stanza della ragazza, Jongsu che alla sparizione della ragazza ritrova quella stanza diversa da come la ricordava, Jongsu che scrive al computer in quella stanza poco prima dell’atto conclusivo di tutta la vicenda), ma soprattutto l’alternarsi delle presenze – e delle assenze – in modo tale da comprendere quanto in realtà hai sempre avuto sotto gli occhi, “ma era troppo vicino per accorgertene”.

Ogni personaggio del film “esiste” laddove è presente anche Jongsu. Non sappiamo mai che cosa facciano gli altri in fuoricampo, tutto quello che accade nel film accade perché lo vede (lo immagina?) il suo protagonista, e questo vale tanto per i due coprotagonisti – Haemi e Ben – quanto per le figure di contorno, dal padre del ragazzo che continua a subire processi per i suoi scatti d’ira violenti, alla madre che ricompare – misteriosamente… –  dopo essere fuggita di casa 16 anni prima.

Luoghi (la fattoria di famiglia che il ragazzo è costretto a portare avanti, la minuscola stanza di Haemi, dove lui torna a masturbarsi dopo aver fatto lì con lei l’amore un’unica volta, prima che partisse per l’Africa, la lussuosa casa di Ben dove, guarda caso, Jongsu vedrà per la prima volta il gatto di Haemi…) e persone “vivono” solo ed esclusivamente se a “viverli” è il protagonista.

 

E allora l’ossessione diventa mania, la corsa intorno alle serre abbandonate si alterna ad un pedinamento sempre più goffo e infruttuoso, mentre il telefono di Haemi continua ad essere irraggiungibile, la ragazza chissà dove, e il rimbombo dei suoi racconti sul passato – che a Jongsu non combaciano – un ulteriore elemento che scompagina la linearità del tutto. Per ingolfare il mistero, e tentare di risolverlo banalmente con qualche pugnalata.

Quando invece, in realtà, era tutto molto limpido e chiaro sin dall’inizio: sarebbe bastato non lasciarsi ingannare da quella “pantomima”, e continuare a credere a solo ciò che davvero avevi davanti agli occhi.

 

Ma non sarebbe esistito questo straordinario film.