Cinema del reale in purezza: documentario nello spirito ma anche per convenzione, che attraverso il montaggio scopre una realtà rivelatasi con nuovi e altri significati. Al Festival di Locarno 2021 Brotherhood ha vinto il Pardo D’Oro del Concorso Cineasti del Presente, un premio che pare pensato proprio per un film del genere, tant’è sintonizzato sulle frequenze del contemporaneo.

Francesco Montagner si immerge nel quotidiano di tre fratelli bosniaci senza spiarli dal buco della serratura, ma stando loro accanto e anche addosso, osservandoli non come bestie rare ma mettendosi alla loro altezza. Sulle tracce di Le cose belle di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno e Adolescentes di Sébastien Lifshitz, è partito dalla realtà per portava nell’altrove prossimo del suo ripensamento, assistito in sede di sceneggiatura da Alessandro Padovani, che con Movida si è dimostrato parimenti interessato a spostare la testimonianza verso la sua ricostruzione narrativa.

I tre fratelli sono nati in una famiglia di pastori e cresciuti nella certezza di dover raccogliere il testimone – anzi, il bastone – dal padre, che tra l’altro è anche un predicatore islamista piuttosto radicale. Quando l’uomo finisce in carcere per terrorismo, i ragazzi restano soli, si allontanano dagli schemi imposti dall’ingombrante genitori e scoprono finalmente la libertà.

È chiaramente un racconto di formazione, Brotherhood, coproduzione ceco-italiana (i coproduttori di casa nostra sono Alberto Fasulo, di per sé punto di riferimento per questo tipo di cinema, e Nadia Trevisan): per evidenti contingenze sappiamo provenire dal presente, eppure sa trasmettere un’aderenza ancestrale ai grandi racconti della tradizione più profonda, che sia reminiscenza biblica o un racconto tramandato dall’epoca cavalleresca.

E che al contempo dialoga con altre narrazioni tra antropologia e fiction dedicate a personaggi dimenticati dai canali ufficiali, dalle avventure nella natura de I cormorani di Fabio Bobbio ai misteri atavici evocati da Sacro moderno di Lorenzo Pallotta fino alle dilatazioni non sempre razionali de I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin.

Montagner sembra quasi scegliere un work in progress permanente, come se la realtà fosse così sfuggente da poter essere restituita solo nella sua forma slabbrata, e quindi ha il coraggio di osare soluzioni alternative all’ordine costituito, imbocca percorsi che sovvertono lo schema del coming of age, sfida le aspettative seguendo i silenzi e affidandosi alle immagini. Individua nell’abitudine alla reiterazione e nello stupore dovuto allo svincolamento dall’autorità le chiavi d’accesso per scandagliare l’interiorità di persone in fieri. Osserva, esplora, racconta.