Ha richiesto sei anni di lavoro realizzare Bombay Rose, piccolo capolavoro di poesia animata sull'India composto da singoli fotogrammi.

Film di apertura della 34° Settimana della Critica, è il lungometraggio d'esordio della regista indiana Gitanjali Rao, da lei anche sceneggiato, montato e disegnato. Un vortice bollywodiano di musiche e colori che racconta una storia d'amore, ovviamente, ma anche di emancipazione femminile e di fortissima malinconia.

L'innamoramento tra Kamala, indù sfuggita a un matrimonio combinato, e Salim, musulmano che vende rose lungo la strada, è ostacolato da condizioni economiche e religiose avverse. Nulla però impedisce loro di ricorrere all'immaginazione, che riempie la realtà animata in "maniera psicologica", come spiega la regista, "un mondo che è dimensione interiore della mente e dell'animo".

E allora le strade trafficatissime di Bombay diventano teatro di momenti fermi nel tempo, come il colpo di fulmine e il primo bacio tra i due, che vediamo solo attraverso i finestrini di una macchina; mentre anche i momenti più drammatici, trasfigurati in versione film bolliwodiano, finiscono per essere meno dolorosi.

Non che Bombay Rose tenda ad escludere la cruda realtà: sono ampiamente messi in scena indigenza e sfruttamento minorile, così come il mondo del crimine. Emerge però su tutto il resto il tema della già citata emancipazione femminile, di cui si fa portatrice soprattutto la sorella minore della protagonista, fierissima di studiare e di essere la più brava della classe. Un messaggio importante e di grande speranza, se si pensa all'India come al paese delle spose bambine.

Bellissimi i ricorrenti proverbi indiani e le musiche che avvolgono le scene più poetiche: vedere Bombay Rose corrisponde a un'immersione affascinante e completa nel mondo indiano, reale e immaginario.