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Raphaël Personnaz in Boléro
Il passaggio più interessante di Boléro, ricostruzione della genesi della celebre partitura, non c’entra niente con la musica. O perlomeno non direttamente: c’è Maurice Ravel, soldato nella Prima guerra mondiale, che, camminando in una specie di ospedale da campo, posa lo sguardo su un uomo gravemente ferito, sospeso in aria come fosse un angelo. È un momento rapido, campo e controcampo senza troppa retorica, con il primo piano di Ravel (interpretato con misura da Raphaël Personnaz, uno dei volti più malinconici del cinema d’oltralpe) spostato verso destra e il ferito che lo fissa per pochi secondi (Raphaël Cohen, epifanico nella sua apparizione).
È uno dei rari passaggi in cui questo biopic sobrio e tradizionale sembra confrontarsi davvero con quel senso di morte che aleggia in tutta la vita di Ravel, una presenza che si rivela in tutta la sua importanza non solo nel finale straniante e onirico con l’esecuzione del capolavoro immersa nel vuoto.
Ma soprattutto nella continua dialettica tra l’autore e la sua opera, una rincorsa anzi un’ossessione – un sentimento, se così possiamo chiamarlo, che per la sua natura spettrale e cannibale (s)confina sempre con la morte – che Anne Fontaine non sa declinare in una messinscena più fisica e coinvolgente. Quasi si scoprisse infine come il suo protagonista che, ascoltando per la prima volta il Boléro, rimane pacatamente sconvolto dalla carica erotica di una composizione immaginata in termini meno sensuali e più intellettuali, un balletto pensato – lo vediamo nell’incipit – come una “traduzione musicale” dell’universo della fabbrica, con l’ispirazione suggerita dai rumori delle macchine. Il riferimento, tuttavia, venne poi minimizzato nell’allestimento della ballerina Ida Rubinstein, figura decisiva per la realizzazione del Boléro (nato sulle cenere di un mancato adattamento della suite Iberia di Isaac Albéniz).


Sulla scorta dei biopic musicali di nuovo conio, la navigata Fontaine – che ha adattato il libro biografico di Marcel Marnat insieme a Claire Barré con la collaborazione di Pierre Trividic, Jacques Fieschi e Jean-Pierre Longeat – vuole restituire la fatica e il desiderio della creazione, incrociandolo con il racconto biografico di un genio fragile e quasi impenetrabile, trovando negli effetti della malattia neurodegenerativa – che lo porterà alla morte nel 1937 – la possibilità di uscire dalla linearità cronologica e procedere per associazioni di ricordi.
È un espediente (aiutato dal montaggio di Thibaut Damade) che dà un po’ di carattere e conflittualità a un film ambizioso, sontuoso nella confezione (fotografia di Christophe Beaucarne, scenografia di Riton Dupire-Clément, costumi di Anaïs Romand), ricco nella composizione del cast (ci sono le sempre carismatiche Doria Tillier, Jeanne Balibar, Emmanuelle Devos, Anne Alvaro come madre morente) ma anche vagamente scolastico e convenzionale.