Vi ricordate Captain America: Civil War? Tranquilli, nemmeno noi. Comunque, di quel superhero movie del 2016 seguiamo T'Challa alias Black Panther (Chadwick Boseman), che fa ritorno nella sua patria nascosta, ipertecnologica, avveniristica: Wakanda, Africa, quella che non diremmo, e il segreto sono i giacimenti di vibranio su cui poggia.

Il padre è morto, e il giovane e nerboruto figliolo deve succedergli al trono: T’Challa stende un rivale montanaro e diventa sovrano, con l’idea – politica! – di mollare l’isolazionismo e di prendersi cura del mondo intero.

Al suo fianco l’ex ragazza Nakia (Lupita Nyong'o), la sorellina nerd e tosta Okoye (Danai Gurira), la saggia madre Ramonda (Angela Bassett), la guerriera Ayo (Florence Kasumba), lo zio mistico Zuri (Forest Whitaker) e l’amico W’Kabi (Daniel Kaluuya, Get Out), ma della partita sono anche l’agente Cia Everett K. Ross (Martin Freeman) e, soprattutto, la nemesi Erik Killmonger (Michael B. Jordan), con cui T’Challa dovrà combattere una battaglia decisiva non solo per le sorti di Wakanda, ma del pianeta intero: due galli nel pollaio, chi la spunterà?

Black Lives Matter, e poteva Hollywood non declinare in chiave supereroica? Ci pensa la Marvel, che dedica alla Pantera Nera uno spin-off per la regia di Ryan Coogler, che continua nella sua discesa poco libera: l’ottimo esordio Fruitvale Station (2013), il discreto Creed (2015) e ora questo mediocre Black Panther, prima avventura cinematografica in solitaria del personaggio creato da Lee e Kirby nel 1966.


Intenzione e confezione afro sono esplicitamente fubu (for us, by us), la missione poetico-ideologica pienamente in campo, travasata con quella correttezza politica che sta soffocando l’America, e non solo, e ammantata di tutta la superficialità e la stucchevolezza del caso: più che un manifesto sembra una tavola ottometrica da cui siano stati stati espunti i caratteri più piccoli.

Tutto roboante, tagliato con l’accetta, un tanto al chilo, e ne fanno le spese anche gli interpreti: tutti sotto la sufficienza  , appunto, da sei politico, e scherzo beffardo del destino i migliori sono i bianchi Freeman e, ancor più, quel nano malefico di Andy Serkis.

Il problema principe, stante una spettacolarità in sordina e psicologie senza alcun aggetto, è drasticamente evidente: non si può incardinare il senso politico, leggi l’orgoglio nero e derivati (autodeterminazione, riscatto, emancipazione, uguaglianza, etc.), a una piattaforma evasiva per antonomasia quale è il cinecomics Marvel.

Come acqua e olio, e tra spiegoni compresi di sé, innesti sballati e sintesi abortite il precipitato è pesante, pedante, controproducente.

Dunque, che rimane? A dimostrazione esplicita del senso di colpa bianco, dell'ipocrisia del politicamente corretto, della brutta piega della critica americana, il 99% di giudizi positivi sull’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes. Ma, fidatevi, BlackPanther è un (finto) fubu senza lode né niente: Black Superheroes Matter?