Dice già tutto, il sottotitolo italiano di Augure, l’opera prima di Baloji, rapper e artista visuale: Ritorno alle origini. Di questo parliamo: la vicenda biografica come palinsesto narrativo. Koffi, un congolese stabile in Belgio da quindici anni, torna nel villaggio natio per presentare alla famiglia la sua compagna, bianca e per di più incinta. Lì lo considerano uno “zabolo”, cioè uno stregone, e perciò tutti lo guardano con diffidenza (e non è che la relazione con un’europea giochi a suo favore). Il riflesso tra realtà e finzione parte dall’onomastica: in lingua swahili, Baloji starebbe per “uomo di scienza”, ma in epoca colonialista il significato si è ribaltato, appunto, in “stregone”. Uno slittamento rivelatorio: la riflessione post-coloniale per riappropriarsi di una tradizione depredata, riposizionare la prospettiva fuori dallo sguardo occidentale, restituire uno spazio al passato più mitico e ancestrale.

Più che di autobiografia seppur non canonica, potremmo parlare di autofiction, un po’ per lo scavo psicoanalitico e un po’ per la trasfigurazione antinaturalista. Ma l’inconscio è collettivo prima che personale, l’identità singolare si riverbera nella pluralità delle esperienze: il film, infatti, segue le vicende di altri tre personaggi oltre a Koffi, diversi per genere e anagrafe ma accomunati dallo stesso stigma: presenze sciamaniche in comunità soggiogate dalle superstizioni e influenzate dalla persistenza del mito, divergenti poiché dentro e, al contempo, fuori in quanto emarginate. E così, seguendo le marche tipiche di un realismo magico, il racconto personale di un ritorno a casa che si sublima nell’affresco fantasmagorico dall’interno di un continente, del suo popolo e della sua cultura.

Presentato a Cannes 2023 in Un Certain Regard e passato al 41° Torino Film Festival dove ha vinto nella sezione Crazies, Augure è la cronaca onirica di un esodo, una ricognizione spettacolare sul destino, un percorso di riappaesamento nell’immaginario per riconciliarsi con il passato, convivere con i fantasmi, liberarsi dalle credenze. Ne è venuto fuori un film non privo di ingenuità, quasi una performance immersiva, un flusso libero che non cerca l’ordine nel caos, una vitale ed evocativa esplorazione visiva e sonora.