Matilda De Angelis ha 25 anni e fa parte di una generazione abituata a ragionare su scala europea, muovendosi con disinvoltura tra le nazioni e conoscendo coetanei provenienti da culture lontane. L’Erasmus, certo, ma anche la curiosità stimolata dalla possibilità di accedere a molte più informazioni rispetto al passato. Ma la generazione di De Angelis è anche quella che è cresciuta dovendosi misurare con un mondo attraversato dalla tragedia del terrorismo.

Pensiamo al Bataclan, il locale parigino che fu scenario dell’attentato del 13 novembre 2015, in cui un commando dell’ISIS trucidò 130 persone, prevalentemente giovani o giovanissimi, che stavano assistendo al concerto degli Eagles of Death Metal. L’idea di essere all’interno di un contesto geopolitico vulnerabile e potenzialmente pericoloso è assodata, così come sono consolidati il diritto di non barricarsi in casa per non darla vinta agli stragisti e il dovere di rivendicare una diversità umana per non odiare il prossimo.

La premessa è decisiva per capire Allegra, il personaggio che la convincente De Angelis interpreta in Atlas (in anteprima a Taormina, dall’8 luglio in sala), opera seconda dello svizzero Niccolò Castelli. Vittima di un attacco terroristico in un bar che costa la vita ai suoi amici, Allegra è devastata dal trauma, dal senso di colpa di essere sopravvissuta, dal desiderio di vendetta. Castelli ci porta dentro il dolore della ragazza, collocandola in un orizzonte fluido dove tempo e spazio sono legati a contingenze emotive (decisivo l’apporto di Esmeralda Calabria in sede di montaggio).

In questo senso Allegra si pone come un corpo estraneo, una superstite che non sa riambientarsi nella vita perché circondata e segnata dalla morte: dalle cene con i suoi genitori e i cari delle vittime (c’è anche Neri Marcorè, che agisce di sottrazione nel tratteggiare la catastrofe di un padre) agli incontri occasionali fuori casa, cogliamo Allegra – un nome che è ovvia antitesi ma anche promessa di futuro – come un fantasma che deve accettare il fatto di essere ancora presente a se stessa. E l’unico modo per rinnovare il suo patto con la vita è rinascere, offrirsi una nuova possibilità, dare fiducia alla relazione con l’altro. Come Arat, giovane rifugiato del Medio Oriente.

© Cattaneo-Imagofilm
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Un incontro complesso e difficile che si rivela indispensabile per potere vedere quella luce che sembra mancare per tutto il corso di Atlas, che nel titolo convoca questo termine dal significato ampio e flessibile, dall’atlante che raccoglie le mappe del mondo alla suggestione astronomica. Frammentario nella misura in cui è l’esito del percorso di ricollocazione della protagonista nel mondo dei vivi, è un film che si presenta come un’ascesa – Allegra e gli amici sono appassionati di arrampicata e l’arrivo in cima che apre la storia esalta la forza fisica di una giovinezza invincibile e la bellezza di volti con tutta la vita davanti – e si sviluppa come dolente catabasi nell’oscurità domestica, nel grigio metropolitano, nell’annullamento alcolico.

Non sempre accessibile pur senza mai rinunciare a una precisa dimensione autoriale, è un intenso racconto di riappropriazione del proprio essere – restare – umani. Producono il mitico Villi Hermann, Michela Pini, Caroline Houben, Olivier Rausin con Carlo Cresto-Dina di Tempesta (si sente lo sguardo di questo produttore sensibile al lessico dei giovani talenti).