Senza lasciarsi ingannare dalla miopia, la cosa più interessante di Arthur Rambo è l’approccio di Laurent Cantet. Sarebbe improprio leggerlo come un instant movie e non solo perché in questa storia i social sono un mezzo e non un fine, uno strumento che lo sintonizza sulla contemporaneità e non un pretesto che ne limita la prospettiva.

Quella del protagonista è una tipica parabola sulle conseguenze della celebrità, sui contraccolpi del nostro passato ovviamente accidentato su un presente disegnato sulla misura dei desideri altrui, sul rapporto tra la nostra immagine pubblica e le contraddizioni dei nostri istinti meno confessabili.

Liberamente ispirato alla storia del cronista radiofonico Mehdi Meklat, è un racconto morale che si svolge nell’arco di quarantotto ore, perché oggi la cronaca d’ogni colore si divora la realtà nel corso di due giorni e al terzo, satolli di quel fatto magari fattaccio, se ne chiede un altro al banchetto del chiacchiericcio. Due giorni, appunto, in cui cambia la vita di Karim D., giovane di origini arabo-francesi che dalle banlieue è diventato un beniamino dell’editoria.

Scrittore di grido, perfetto per la narrazione di un Paese che vuole presentarsi come la culla dell’integrazione virtuosa, per di più giovane e carino, Karim è conteso dalle case editrici, acclamato dai lettori, richiesto dalla società dello spettacolo.

Finché si scopre che, con lo pseudonimo Arthur Rambo (combinazione tra il maudit Rimbaud e l’icona di Stallone), dispensa una valanga di messaggi xenofobi e reazionari su alcuni blog. Va da sé che coloro che un attimo prima lo lambivano si tirano indietro di fronte allo scandalo. Ma qual è la verità? Quanto Arthur e quanto Rambo ci sono in Karim? Da dove arriva questo suo bisogno di esporsi senza rivelarsi? Perché ha deciso di mettere in pericolo un futuro luminoso illuminando la sua anima più tenebrosa?

Ed è qui che riconosciamo il merito di Cantet: nel tratteggiare la figura di un ragazzo troppo auto-narratosi per non essere davvero sfuggente, non prevale il giudizio e non si sbilancia in empatia. Attenzione: Cantet giudica in maniera negativa gli inaccettabili messaggi di Karim/Arthur, certo, eppure non accetta l’idea della gogna mediatica, la logica delle opposte barricate, l’incapacità di leggere un comportamento sgradevole nel contesto in cui è maturato.

Regista discontinuo, Cantet si conferma un narratore che si lascia toccare dall’imprevisto, un osservatore di persone in fieri che si ritrovano a essere valutate a un varco prematuro, un testimone del tempo debole che non vuole essere né un avvocato del diavolo né un censore intransigente. Quella che può essere confusa come una mancata presa di posizione si rivela in realtà un approccio rispettoso della complessità, ostile alla semplificazione, affine a quello di un detective.

E soprattutto consapevole che i confini labili tra reale e virtuale si riflettono nel dramma identitario, nel limite di identificare l’inconscio con il male, chiedendosi se la causa della scelta del protagonista non sia da individuare proprio nella coscienza di identificarsi con il nostro lato più osceno. Il fatto che Karim dica cose orrende non confligge con l’idea che possano esistere pensieri inconsci che vanno affrontati e non respinti.

Non risponde a tutte le domande che mette in campo, Cantet, ma il suo è un film che sa dialogare con il trauma di una società bisognosa di riconoscersi in una voce che sia univoca dunque incontestabile e però frammentata in miliardi di angosce, pulsioni, indegnità.