Chi sono Viviana Tacchella, Rossella Canaccini, Daniela Santerini e Franca Deni? Nomi che oggi come oggi, ai più, diranno ben poco. Nella seconda metà degli anni ’60, ancora giovanissime, erano Le Stars, giovanissima band italiana della provincia toscana che, nel 1968, viene spedita nientemeno che nel Vietnam del Sud, nel pieno del conflitto, per suonare nelle basi militari americane.

Arrivederci Saigon di Wilma Labate racconta questa incredibile storia, mai arrivata del tutto alle orecchie dell’opinione pubblica. In primo luogo perché quasi sottaciuta per anni dalle stesse protagoniste.

Al documentario, prodotto tra gli altri da Gianluca Arcopinto e realizzato grazie agli archivi AAMOD, Istituto Luce Cinecittà e Rai Teche, manca purtroppo il fondamentale apporto dell’eccezionalità del momento, ovvero le immagini della band in Vietnam e, ovviamente, dei concerti tenuti in quei 3 mesi.

Nonostante ciò, il lavoro porta comunque a galla una vicenda che non meritava rimanesse nell’oblio. Attraverso le parole delle sue protagoniste, che a distanza di anni si riavvicinano a quegli avvenimenti con emozioni e sentimenti contrapposti, Arrivederci Saigon riesce a riportarci alle contraddizioni del ’68 seguendo un filo inedito.

Provenienti dalle acciaierie di Piombino, dal porto di Livorno e dalle fabbriche Piaggio di Pontedera, la provincia rossa delle case del popolo e del PCI, vengono portate in Vietnam grazie ad un raggiro: convinte di partire per una tournée in Estremo Oriente, da Manila a Singapore: le ragazze – pena il pagamento di salatissime penali – si ritrovarono così costrette ad accettare di restare per tre lunghi mesi nelle basi sperdute nella giungla, tra i soldati americani e la musica soul.

Mentre nel resto del mondo, America e Italia compresa, si chiedeva a gran voce il ritiro delle truppe USA, quelle ragazzine (con l’unica Viviana maggiorenne) conoscono la guerra da vicino e i giovani americani costretti a combatterla, a volte senza capirla. E iniziano a familiarizzare con il soul, la musica amata dai soldati neri. I concerti delle Stars, il più delle volte, sono proprio per loro, che più dei bianchi affollavano le prime file della platea.

Ecco, il senso più profondo del documentario, quello forse più straniante, è proprio questo: tornate finalmente a casa dopo un lungo periodo in un luogo e in un contesto oggettivamente inospitali, rischiando addirittura di rimetterci la salute e la pelle, Le Stars vengono in qualche modo emarginate. Hanno suonato per gli yankees, un’onta che per le famiglie, gli amici, i compagni della sezione del Partito Comunista e gli studenti in lotta per le strade, è impossibile da cancellare.

E allora hanno preferito nascondere – alla fine anche a loro stesse – di essere mai state lì. In qualche modo tenendo sepolti per quasi cinquant’anni quei tre mesi capaci invece di formarle come nessun altro luogo comune, o partito preso, avrebbe potuto fare in quell’indimenticabile 1968.