Muoversi, spostarsi, trasferirsi, chiamare i nostri cari, parlarci, persino abbracciarli, sono tutti gesti che diamo, inevitabilmente, per scontati. Ahmad Ghossein, regista all’esordio su grande schermo, decide di mostrarci, attraverso una fessura in un muro malridotto e polveroso, cosa succede a chi non può (più) farlo con All This Victory, che vince il premio di Miglior Film alla 34a Settimana Internazionale della Critica.

Non è un caso che Marwan rimanga bloccato in una zona di guerra, dopo aver lui stesso rassicurato tutti. Il cessate il fuoco sarebbe durato abbastanza da convincere il proprio padre, arroccato in un paese in una zona poco sicura, a venire via dalla sua casa, no?

Ci somiglia, il protagonista, sia nell’ostentare sicurezza, prima, che nel rifiutare l’orrore dell’essere intrappolati, dopo. Solo al termine di un cammino che, forse, lo riporterà a casa (ma a che prezzo?), comprende la natura della guerra e dei suoi figli. Prima, un viaggio che, ad ogni tappa, allontana dalla meta. Come quando in sogno dobbiamo correre da qualche parte e continuano a frapporsi ostacoli su ostacoli a ogni passo.

Insieme ad altre persone, raffinati ritratti di varia natura, il protagonista è ancora alla ricerca e privo, a tempo indeterminato, della figura paterna, intrappolato in un non-luogo, in maniera non dissimile dal Roy McBride di Brad Pitt in Ad Astra ma raccontato in mo(n)do diverso.

Certo, esclusa la storia, potente e claustrofobica il giusto, gli strumenti non sono quelli di Hollywood e, forse per fare di necessità virtù, anche la mano registica sacrifica qualsiasi vezzo. Esagera, in questo senso, tradendo un pizzico di inesperienza, ma i mancati movimenti di camera, qui e là, non minano affatto la potenza di una storia che, profondamente umana, arriva all’uomo, qualunque forma scelga come medium.