Se non fosse un film, A Single Man di Tom Ford sarebbe un bellissimo spot: caldo, rassicurante, laccato. Ma siccome a Venezia lo hanno presentato in concorso, bisogna dedurne che di cinema si tratta, anche se del genere promozionale. Il problema è che il famoso designer di moda americano si è buttato dietro la macchina da presa applicando i principi della vecchia professione alla nuova, preoccupato soprattutto di esibire in "bella forma" il romanzo di Christopher Isherwood, piuttosto che tradurlo adeguatamante per immagini. Così, quella che poteva (doveva?) essere una storia macchiata da dolore e isolamento, smarrimento e crisi spirituale, diventa una luccicante passerella di istantanee in movimento, fotogrammi di assoluta bellezza formale, animati dalla macchina estetizzante di un cinema interessato solo al maquillage del reale. Il Single Man del film è George Falconer (Colin Firth), un professore universitario che perde la bussola dopo la morte del compagno Jim (Matthew Goode). Nè l'amica Charley (Julianne Moore), né le attenzioni di un giovane studente, Kenny (Nicholas Hoult), sembrano in grado di riportarlo alla vita. L'uomo è determinato al suicidio, lo pianifica in ogni dettaglio. Quando tutto sembra deciso però, una visita inaspettata ne mina i propositi. L'uomo forse cambierà idea, Ford no. Lo stilista-regista non abbandona mai il suo stile manierato e il suo tocco glamour, risolvendo pure il problema della maturazione interiore di Colin Firth - ammirevole nello sforzo di apparire, almeno lui, autentico - nel più facile e didascalico dei modi, ovvero abbinando la voce fuori campo del protagonista al veloce remix di scene e immagini già viste. Farcite ovviamente di nuovi e radiosi significati, che rivestono il racconto dal di fuori anziché emergere dall'interno. Per l'esistenzialismo prêt-à-porter anche la morale è una questione di forma.