Daniele e Martina. Galoppino di droga il ragazzino, aspirante influencer, in predicato di anoressia, l’enigmatica, boccolosa coetanea. Due giovanissimi senza riferimenti in un viaggio di perdizione (e redenzione?) che dura giorni. Da Castel Volturno a Bagnoli. Sulla strada si imbattono in mestieranti, avventori, emarginati. Daniele, però, strascinando una scatola di polistirolo per la strada, ha un solo desiderio: portare le mozzarelle di bufala alla nonna in procinto di morte.

Tutto è partito, all’inizio, da una tiro di crack condiviso con l’amico Lucio. Poi ecco la missione: il padre, in odore di malavita, vuole che Daniele consegni le mozzarelle all’anziana in fin di vita.

In bilico tra dramma famigliare e road movie, tra emarginazione e allucinazione, Diego Santangelo – un brillante pedigree di spot televisivi, doc, fotografie di moda e clip con il Napoli Calcio - scrive (con la figlia Naomi Sally Santangelo, anche casting director), co-produce, distribuisce e gira un’opera prima sovraccarica e disomogenea sulla genitorialità perduta in una terra martoriata che pure si regala frangenti di grazia inquadrando di quando in quando marginali, matti, diseredati che punteggiano la costa campana.

A Santangelo non difetta la coscienza del contesto, il ritratto antropologico, l’empatia verso i miseri, la devozione verso il “nuovo cinema napoletano” (la Gomorra malavitosa di Garrone, le contemplazioni paesaggistiche di Martone, la fotografia acidula e il teen drama diroccato di De Angelis, perfino le terrazze festaiole sorrentiniane). Incuriosisce, perfino, negli inserti da videoclip, nello sguardo accorato e allarmato su una terra desolata, tra ecomostri e rovine abbandonate. Ma la muzzarell se non rancida, è forse insipida, anzi troppo ca(lo)rica. 
Ad appesantirla una certa, cronica imprecisione di scrittura che, nella fumosità dei dialoghi, scontorna personaggi incapaci di staccarsi dallo stereotipo di partenza, come la matrioska musicale della colonna sonora (Adriano Pennino): la trap adolescenziale che si accavalla al prevedibile neomelodico che sfuma in house music che lascia il passo pure a successi di musica leggera. 

Per tacere, soprattutto, della piatta inespressività di cui troppo spesso finiscono preda tutti gli attori (per lo più non professionisti). Se manca, allora, una direzione attoriale autorevole, oltre la flebile linea narrativa rimane la pregevole collezione di cartoline di una terra piena di gemme bistrattate (la calda fotografia è di Gennaro Mastrogiovanni): al di là del fiacco sbandare dei due piccoli picari, si stagliano lo sperone di Torregaveta, la Pozzuoli di scorci e di rioni, il castello di Baia, l’antro della Sabina. 

C’è lo zampino, infatti, del Ministero della Cultura e del Festival Corto Flegreo oltre che il patrocinio del Parco Archeologico dei Campi Flegrei e del Comune di Pozzuoli a innervare questo film dal budget quasi inconsistente. Lo stesso dicasi, purtroppo, per la trama.